Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  ottobre 06 Mercoledì calendario

IL MIO INCUBO E’ FINITO E ADESSO AVANTI SAVOIA!"

«Principe...». «No, niente principe. Lo so, volete farmi dire delle cattiverie su Woodcock. E io non le voglio dire. Ho ritrovato un po’ di serenità e intendo difenderla come il più prezioso dei beni». Pioviggina. Ma nelle sale di Palazzo Terzi, un’oasi di barocco nel cuore medievale di Bergamo, splendono gli ori, i broccati, i colori del Tiepolo e dei suoi allievi. Vittorio Emanuele di Savoia guarda fuori come se aspettasse qualcosa. Spiove e appena sbuca un raggio di sole, prende per mano Marina Doria, la moglie, e la trascina all’esterno, su una balconata affacciata a perdita d’occhio sulla pianura Padana e idealmente su tutta la penisola, fino all’ultima delle isole.
Vittorio Emanuele ha voluto che partisse da qui, dal Nord leghista, un giro d’Italia per i 150 anni di un’Unità che è stata il capolavoro della sua dinastia e che oggi qualcuno vorrebbe fare a pezzi. Davanti a quel panorama avrebbe mille cose da dire e raccontare. Ma piaccia o no, l’argomento del giorno è un altro. Lo introduce Franco Malnati, avvocato di fede monarchica, stringendo la mano al suo amato principe: «Ve lo avevo detto, altezza, che tutto sarebbe finito in una bolla di sapone».
E così, finalmente si aprono le danze. Anche se altri dovevano essere i temi, altri i programmi e le finalità della visita, Vittorio Emanuele finisce su un divanetto di velluto rosso, mano nella mano con Marina Doria per rilasciare a Oggi la prima intervista sulla sua vicenda giudiziaria. A porte chiuse, mentre i cavalieri dell’ordine Mauriziano lo aspettano per inaugurare il Vicariato di Bergamo, il Savoia racconta la storiaccia di corruzione, gioco d’azzardo e prostituzione che lo ha fatto rinchiudere in una cella, lo ha fatto finire su giornali e Tv di tutto il mondo e che il 22 settembre, proprio come una bolla di sapone, è finita nel nulla, con lui e altri 5 imputati assolti perché il fatto non sussiste.
Cosa prova?
«Fino a qualche giorno fa nutrivo un certo rancore per chi ha fatto soffrire me e la mia famiglia. Oggi per quella persona provo pietà».
Chi è quella persona?
«Woodcock, John Henry Woodcock. In questi anni 210 persone da lui inquisite sono state assolte perché contro di loro non c’era niente, niente di niente. Al processo, prima ancora della difesa, il primo a chiedere la mia assoluzione è stato il pm, la pubblica accusa».
Può capitare.
«Capita un po’ troppo spesso. Non è normale costruire processi come il mio, con accuse a vanvera, fondate sul nulla».
Chiederà i danni allo Stato?
«Certo che lo farò. Per usare una brutta parola, sono stato infangato in tutto il mondo. Ho subito danni enormi».
Quanto chiederà?
«Mi accontenterei di vedere le salme dei miei genitori rientrare in Italia, nel posto che spetta loro, al Pantheon».
Tutto qui?
«Le pare poco? Ci penseranno i legali a quantificare il danno vero e proprio. Ma la vera soddisfazione sarebbe provocare un’inversione di rotta».
Quale?
«Nel nome della legge in questo Paese vengono commesse colossali ingiustizie. Non si può sbattere la gente in galera così, sulla base di un teorema. Ci vogliono le prove. Ecco, io vorrei che il mio caso offrisse lo spunto per cambiare. Penso al bene dei cittadini. Ma anche al bene di questo magistrato, che non va lasciato nelle condizioni di commettere altri errori. Perché alla fine ad andare di mezzo sarà lui. Un giornale lo ha definito il pm delle cause perse. Terribile».
Ne parla con tono preoccupato, quasi paterno.
«Non esageriamo. Però è vero che il mio atteggiamento nei confronti di tutta la vicenda non è più lo stesso».
Cosa è successo?
«Non me lo so spiegare nemmeno io. È come se mi fossi svegliato da un incubo. Mi do un pizzicotto e capisco che non c’era nulla di vero. È una sensazione stupenda».
Perché parla di incubo?
«Perché come in un brutto sogno mi sentivo impotente, vittima di un ingranaggio più grande di me. Le accuse erano talmente assurde che non sapevo come difendermi. Slot machine, gioco d’azzardo? Ma cosa ne sapevo io che non ho mai puntato alla roulette?».
Mai, mai?
«Mai giocato in vita mia. I soldi sono così difficili da guadagnare che non esiste di andarseli a giocare. Credetemi, in tutta questa inchiesta non c’era un solo elemento di concretezza che mi permettesse di replicare, reagire, ribattere. Era tutto sfuggente, inafferrabile. Era come lottare contro gli spettri. Una cosa tremenda».
E adesso?
«È tutto finito. E proprio come capita con gli incubi, una volta sveglio cerchi di ricostruirli. Lo fai con un animo disteso, più sereno. Di una vicenda drammatica riesci a ricordare anche gli aspetti più belli, più divertenti e paradossali».
Partiamo dai più paradossali.
«Di sicuro il divieto di espatrio. Ho lottato più di 50 anni per tornare in Italia. E quando ci sono riuscito, un giudice ha firmato un documento col quale mi si impediva di uscirne. Buffo, no?».
I più divertenti?
«Il mio telefonino. L’ho dato a un artigiano perché gli crei un adeguato piedistallo e quando sarà finito lo donerò al ministero delle Poste e Telecomunicazioni, come il cellulare più intercettato al mondo».
E i momenti più belli?
«Non dimenticherò mai le persone incontrate nei primi giorni, la loro gentilezza, la loro umanità. Il mondo mi crollava addosso ma, a parte Woodcook, poliziotti, detenuti, il direttore e gli agenti del carcere di Potenza sono stati pieni di attenzioni, di comprensione e solidarietà».
I familiari?
«Marina, mio figlio, mia nuora non hanno mai dubitato della mia innocenza. Nemmeno per un attimo. Questo mi ha dato coraggio. Mi ha permesso di affrontare quattro anni di inferno».
Partiamo dall’inizio.
«Era il 16 giugno 2006, ero a Lierna, sul lago di Como, per consegnare al parroco una campana. Dopo pranzo, a Varenna, vengo avvicinato da due persone».
Carabinieri?
«Scherza? Metto la mano sul fuoco che mai e poi mai i carabinieri avrebbero potuto fare una cosa del genere».
Perché?
«Questo Paese ha una storia, e i carabinieri la rispettano. Questi erano della polizia stradale. Gentilissimi peraltro».
Cosa le hanno detto?
«Lo ricordo come fosse ora. Si presentano e mi invitano a seguirli. "Venga con noi", dicono, "è per la sua sicurezza. Dobbiamo proteggerla". Poi mi ritirano il telefonino, mi chiudono in macchina e via».
Via dove?
«A Potenza. Mi sono fatto 14 ore su una Panda. Non pretendo la limousine, ma lì non riuscivo a stendere le gambe, avevo un mal di schiena terribile, mi sembrava di impazzire. Anche perché ancora non sapevo cosa stesse succedendo. Sul sedile c’erano dei fogli in disordine: "Li legga", mi hanno detto i poliziotti. Ma più leggevo e meno capivo. A Potenza, quando mi hanno preso le impronte digitali, mi hanno fotografato di fronte e di profilo, ho capito che la questione era seria».
Non le hanno mostrato un ordine di arresto?
«Macché ordine d’arresto, niente di niente. E’ stato un tranello, un’imboscata. Un prelevamento in piena regola. Neanche Hitler c’era riuscito».
Cosa c’entra Hitler?
«Pochi se lo ricordano, ma nel 1943 Hitler ordinò il mio sequestro. Eravamo in Svizzera e mia madre Maria Josè concepì un piano per nominare me, che avevo solo 6 anni, re d’Italia. Lei sarebbe stata reggente e poiché era risaputa la sua avversione al nazismo, quando Hitler venne a saperlo decise di intervenire».
Dando scacco al re, cioè lei.
«La pedina fondamentale ero io. Quindi era necessario catturarmi. Ma gli svizzeri intercettarono il commando che doveva prelevarmi e lo respinsero. Per proteggerci ci trasferirono a Oberhofen, all’interno di una compagnia di carri. Non le dico le scorpacciate di cioccolata».
Alla fine prevale il ricordo più dolce...
«Sono fatto così. Se penso al viaggio a Potenza mi vengono in mente la birra offerta dai poliziotti e le comiche al distributore di benzina perché la carta di credito della Procura era senza soldi. Come in un film».
Chi di quel film ancor oggi non riesce a sorridere è Marina Doria. «Se ci penso sto ancora male», interviene la moglie di Vittorio Emanuele. «Chiamavo e il telefonino era staccato. Passavano le ore e lui non si faceva sentire. Poi alle otto di sera accendo la Tv e al telegiornale danno la notizia dell’arresto. Un minuto dopo arrivano in casa mia due vestiti in jeans, mi buttano il telefono e mi dicono "questo è di suo marito, non possiamo dirle altro". Credetemi, sono stati momenti terribili. E oggi davanti al crollo dell’inchiesta mi chiedo che senso ha far soffrire delle persone in questo modo».
Vittorio Emanuele accarezza la mano della moglie, poi la stringe. Si sono sposati il 12 gennaio 1970 a Las Vegas, dove un matrimonio può durare lo spazio di una notte. «Però un mese dopo ci siamo sposati in chiesa a Teheran. Oggi sarebbe un’impresa impossibile. Ma noi ne abbiamo fatte tante, vero Marina? Vedo tante unioni che saltano alla prima avversità. Noi siamo passati attraverso guai di ogni genere. E tutte le volte la nostra unione ne esce più solida. Ognuno ha bisogno dell’altro e alla fine l’unione fa la forza. Come il governo italiano».
Questa è una battuta.
«Veda lei».
Allora principe nessun rancore, nessuna vendetta?
«Non ce n’è bisogno. È il tempo che mette a posto le cose. Mi avevano coperto di vergogna. Adesso quella vergogna è finita addosso a loro».