Michele Serra, la Repubblica 29/9/2010, 29 settembre 2010
IL NUOVO AVANZA MA NON SRADICA L’ APLOMB MENEGHINO - MILANO
Quasi nessuna radio che parla di calcio: nei taxi, per le strade strette del centro, nei vialoni slavati della periferia. È il solo residuo primato che Milano può vantare su Roma, non è molto se rapportato a un sussiego "morale" ampiamente minato dagli eventi, non è poco se serve a restituire qualche merito al vecchio aplomb meneghino. Questa era una città di operai e di borghesi, due classi sociali poco inclini alla baldoria e ai fescennini. Sconfitte entrambe dalla terziarizzazione e anche dalla deriva criminale italiana (con i loro caduti in battaglia: uno per tutti, Giorgio Ambrosoli) hanno però lasciato una traccia di sobrietà, di understatement, che puoi ancora intuire lungo i muri di fabbrica corrosi dall’ abbandono, nelle austere facciate sette-ottocentesche delle case dei signori, nei modi minimalisti ed efficienti di certi negozi e negozianti. Ilocalini civettuoli che la moda e le sue strambe propaggini promozionali hanno disseminato in Milano fanno specie perché in genere le loro luminarie contrastano con palazzi grigi e severi. E i grattacieli che ricominciano a spuntare come porcini (ho detto porcini, non porci) convivono con gloriosi isolati popolari e piccolo-borghesi dove ci si chiama ancora gridando nella tromba delle scale, e la portinaia (filippina o sudamericana) è un’ autorità rispettata. L’ anima di una città è difficile da sradicare, specie se è un’ anima nascosta, rintanata. Franco Fortini mise in poesia la "luce dagherrotipica" di Milano, la milanesità più profonda, lunare e introversa, è ancora ficcata nei libri (Bianciardi, Simonetta, Testori, Doninelli) e nelle canzoni (Jannacci, Gaber, Fo, Della Mea). Poche città in Italia e forse nel mondo sono state sconvolte e ribaltate dal post-industriale come Milano. La potenza di Roma è che il suo "post" è bimillenario, post-imperiale post-barbarica post-papalina post-tutto e post da sempre. Il velocissimo senso dell’ umorismo dei romani (dieci volte più veloce che a Milano) è allevato e nutrito da secoli di scampato pericolo: vedi l’ umorismo ebraico. Milano non è caduta in piedi, perse le fabbriche e persa la nebbia. E’ più ingenua, dunque più indifesa. Più vulnerabile. A Roma non la si beve, e non la si beve dai tempi di Cesare. Milano, come da motto pubblicitario, si è bevuta tutto: Craxi, Bossi (villano inurbato) e Berlusconi sono il suo dono più recente all’ Italia, e c’ è il fondato sospetto che si poteva fare di meglio. Tre candidati a sindaco tutti e tre borghesi di sinistra sono un rimedio molto tardivo e forse un eccesso di generosità. Meglio, però, che morire tirchi. Schiacciati dalle prove a carico, a Milano ci si illude, o si spera, che l’ antica mancanza di furbizia, così settentrionale e così invalidante, possa in qualche maniera, e chissà quando, riattivare almeno qualcuna di quelle virtù civili che ne fecero (secoli fa) la prima città illuminista e poi la prima città socialista d’ Italia. Ci si accontenta di pochi indizi. Uno è quello - dicevo prima - della mancanza di radio dedicate al gioco del pallone. L’ altro è che a Milano si capiscono meno prontamente le battute, ma si fa una gran fatica anche a interpretare Dagospia, le veline politiche, la chiacchiera del suburbio parlamentare e ministeriale, la formula dei veleni. Dateci tempo: in un paio di secoli, non di più, Milano risorgerà e gliela farà vedere, ai romani.