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 2010  ottobre 02 Sabato calendario

DOSSIER SU PRESUNTO ATTENTATO A BELPIETRO - (I

commenti di Pansa, Facci, Bechis, Nuzzi e Farina con rif. a precedenti)

UN COLPO NON CI FERMA
Come sto? Bene, grazie. Se ho passato la giornata di ieri a rispondere così, non l’ho fatto per confermare l’immagine glaciale che il pubblico e i lettori hanno di me. Semplicemente a me non è successo nulla né è accaduto qualcosa alla mia famiglia. Non ho visto la morte in faccia: magari l’ho avuta vicina e ripensando alla serata di giovedì, all’eco dei tre colpi di pistola sparati sul ballatoio di casa mia, mi pare di sentirne l’alito. La morte probabilmente, se le indagini confermeranno le supposizioni, mi ha sfiorato ma non mi ha preso. Chi l’ha vista in faccia invece è il mio caposcorta, un ragazzo alto che insieme ad altri cinque o sei, a turni di due alla volta, mi segue da parecchio tempo. Ho perso il conto di quanto e per ricostruirlo ogni volta penso che mia figlia, la più piccola, aveva pochi mesi e ora ha più di otto anni. Me lo ricordo ancora il dialogo con il questore di Milano, Vincenzo Buoncoraglio, che mi impose la tutela, costringendomi a camminare tra due poliziotti, come i delinquenti tradotti in cella e con la sola grazia di non avere le manette.
Cosa ho fatto per meritarmi questo premio? Nulla, credo. O forse qualcosa di terribile. In questi anni, da direttore del Giornale prima, di Panorama e di Libero poi, ho sostenuto con passione le mie opinioni, senza tacerle mai né sulla carta né in tv. Per alcuni probabilmente questa è una colpa grave, imperdonabile, da pagarsi prima con i bossoli e le minacce di morte, poi le aggressioni fisiche e infine, forse, con qualcosa più di una intimidazione, un’azione vera, con tanto di agguato e pistola. Le indagini diranno cosa è successo. Ad ora pare che un uomo armato abbia atteso sul pianerottolo il mio ritorno a casa. Per fare cosa? Non lo so, posso solo immaginare che non volesse offrirmi fiori ma farmi pagare
qualcosa, qualche frase, qualche articolo. Non è la prima volta che i giornalisti finiscono nel mirino e temo che non sarà l’ultima. Qui a fianco Giampaolo Pansa ricostruisce meglio di me, per averlo vissuto, il periodo in cui caddero Carlo Casalegno e Walter Tobagi e furono feriti Indro Montanelli e Vittorio Bruno. A colpirli furono le Brigate rosse, quelle che per qualcuno erano sedicenti e poi si rivelarono solo sanguinarie. Non sono in grado di sapere se stia tornando quel periodo, come molti ieri mi hanno chiesto, e se i cronisti prima di scrivere debbano pensarci due volte, oppure guardarsi le spalle. Né voglio accusare qualche collega o politico di avere armato la mano del tizio che mi ha atteso sull’uscio di casa. Mi limito a osservare che il clima è mefitico e non da ora. Quando si sostiene che un giornalista è un servo, un cane, una prostituta, un leccaculo, uno che sguazza nella merda e opera nella fogna, certo poi non c’è da stupirsi se c’è chi mette in pratica il proposito di levare di mezzo un personaggio tanto spregevole. Se si conduce una campagna di delegittimazione e di diffamazione indicandoci al pubblico furore, negandoci ogni dignità, anche quella umana, non si può poi fingere di ignorare gli effetti collaterali, pena apparire ipocriti.
Per quel che mi riguarda, comunque, continuerò a fare con serenità il mio mestiere e a raccontare ciò che vedo e penso. Quando entrai per la prima volta in una redazione mi spiegarono che l’unico rischio da scongiurare era il buco in pagina e non in testa. Ma nonostante questo, assicuro a tutti i lettori, i quali affettuosamente ieri mi hanno espresso la loro solidarietà, che il pericolo non ci tapperà la bocca. Né a me né a Libero.
Maurizio Belpietro

Giampaolo Pansa sull’attentato-

Uccidere un giornalista quando ritorna a casa dal lavoro: ecco una storia orrenda che abbiamo già vissuto. Nel novembre 1977, Carlo Casalegno fu ammazzato nell’androne del suo palazzo, a Torino, mentre rientrava dalla “Stampa”. Un killer delle Brigate rosse gli sparò alle spalle e poi se andò indisturbato. A volte il piano attuato dagli assassini prevedeva un percorso inverso: il giornalista veniva accoppato mentre andava al lavoro. Nel maggio del 1980 accadde così a Walter Tobagi. Lo stesso era avvenuto per Indro Montanelli. Anche lui doveva morire e si salvò perché venne soltanto ferito alle gambe.
Adesso, tanto tempo dopo la stagione di sangue degli anni Settanta e Ottanta, è accaduto anche a Maurizio Belpietro. Per lui era prevista la stessa fine di Casalegno: ucciso al rientro da una giornata di lavoro nella redazione di “Libero”, al centro di Milano. Belpietro deve avere un angelo custode di quelli molto attenti. Questo angelo ha salvato lui, uno dei due poliziotti che lo scortavano e la famiglia di Maurizio, la moglie e le bambine. Purtroppo non ha potuto fermare il killer che è riuscito a ritornare nel buio da dove era uscito. Che cosa ci rivela il fallito omicidio di Belpietro? Prima di tutto che i giornalisti sono ritornati a essere le prime vittime possibili di un nuovo terrorismo. Per un fatto semplice: sono figure molto conosciute e non hanno
le scorte formidabili di tanti vip della casta politica. Eppure, in questa società fondata sui media, sono loro a rischiare più di altri. Soprattutto quelli che svettano nella professione poichè hanno l’abitudine di scrivere e parlare chiaro. Per un dovere verso i lettori e gli editori. E per rispetto nei confronti delle redazioni.
MAI IPOCRITA
Da quando lo conosco, Belpietro è sempre stato così. Abituato a dire sì o no, e mai qualcosa di incerto, di nebbioso, che sta nel mezzo con ipocrita prudenza. Per chi ama un’informazione reticente o da paraculi, quelli come lui sono cattivi soggetti. Gente che sta in prima linea, ragiona con la propria testa e scrive quanto gli sembra giusto. Senza inchini verso nessuno. Soprattutto verso i tanti pennacchioni della politica italiana. Ras presuntuosi e mediocri che abbondano in entrambi i blocchi, tanto di maggioranza che di opposizione.
Ecco il primo insegnamento che ci viene da questo delitto sventato per caso. Lo tengano a mente i direttori di giornale più impegnati nel raccontare e a giudicare il caos politico di oggi. Da adesso in poi, dovranno stare molto attenti a quanto accade attorno a loro. Tanti o pochi che siano, sono tutti soggetti a rischio. Obiettivi probabili di una strategia che le forze di polizia e i centri di intelligence hanno l’obbligo di svelare.
Voglio scriverlo perché non credo che il mancato killer di Belpietro fosse un pazzoide isolato. Una specie di Tartaglia armato di rivoltella al posto di un piccolo Duomo di marmo. Aveva di certo pedinato il direttore di “Libero”, conosceva bene il terreno dell’agguato, ossia il palazzo, le scale, la collocazione dell’appartamento. Ed era così pronto a uccidere da aver tentato di accoppare il primo poliziotto che gli è apparso di fronte.
Il secondo insegnamento riguarda l’aria cattiva che soffia in Italia da mesi. Nella mattinata di ieri, molti amici mi hanno telefonato per dirmi che avevo visto giusto nel denunciare, su “Libero” e sul “Riformista”, quanto stava accadendo. A tutti ho risposto che non sono un indovino. E non mi ritengo neppure più furbo di tanti altri colleghi. L’unico mio vantaggio è di avere i capelli bianchi e di aver raccontato l’esplodere del terrorismo rosso e nero negli anni Settanta e Ottanta. È stata la memoria di un tempo coperto di sangue a farmi annusare, in questo 2010, i sintomi di un pericolo troppo simile a quello di allora. Mi sono limitato a sommare due più due. E il risultato è stato terrificante. Proviamo a mettere in fila certi segnali. Una crisi economica non risolta e che rischia di diventare una crisi sociale rabbiosa. Un sistema politico paralizzato in due blocchi che si combattono senza risparmio. Un’asprezza verbale che persino in Parlamento non conosce più limiti. L’inizio di una caccia all’uomo che da settembre in poi non ha quasi avuto soste. Culminata, prima di ieri, con l’aggressione al segretario generale della Cisl che ha rischiato di essere ucciso da un razzo fumogeno.
E ancora un conflitto sindacale sempre più esasperato, come dimostra l’assalto alle sede della Cisl di Treviglio, condotto da militanti della Fiom-Cgil. Infine gli innumerevoli indizi di una faziosità cieca che sta crescendo a sinistra. E che considera nemico pure chi dirige un giornale sgradito, scrive articoli troppo schietti, pubblica libri che la cultura post-comunista mette all’indice.
L’IRRESPONSABILITÀ
Su questo caos gonfio di malvagità, emergono figure di politici irresponsabili, capaci soltanto di giocare con il fuoco. Avrei più di un nome da fare. Ma oggi non voglio scriverli perché mi darebbe fastidio sentirli strillare di non essere i mandanti del tentativo di uccidere Belpietro. Questi politicanti hanno cresciuto migliaia di figliocci. Gli stessi che oggi si rammaricano che il direttore di “Libero” non sia stato eliminato. E si domandano perché non venga accoppato anche Vittorio Feltri.
Confesso di scrivere queste note con animo scoraggiato. Per carattere sono un ottimista. La vita mi ha insegnato che avere paura non serve a niente. Eppure mi domando sempre più spesso quale terribile mutazione stia subendo il nostro paese. Ormai l’Italia politica sembra diventata un territorio sismico.
Anche nelle aree che non hanno mai vissuto un terremoto.
Gli inquilini di Montecitorio e di Palazzo Madama non l’hanno capito che pure loro rischiano grosso. Ma sotto troppi palazzi del potere il terreno sta ballando. A farlo ballare c’è un estremismo armato, in gran parte ancora sconosciuto. Oggi si manifesta come un ribellismo rosso, attivo in più di una città, con battaglie di strada e assalti a eventi politici. Ma pronto ad alzare la testa, e le rivoltelle, quando meno ce l’aspettiamo. E a diventare un terrorismo dispiegato e omicida.
È quanto è accaduto ieri sera, in un tranquillo palazzo milanese. Soltanto il caso ha salvato Belpietro e la sua scorta. Se una pistola non si fosse inceppata, avremmo visto, come minimo, la morte di un agente di polizia. Voglio dedicare un’ultima parola a lui e ai tanti poliziotti, carabinieri e finanzieri delle scorte. Uomini preziosi che rischiano la vita per stipendi molto avari. Anche per loro bisogna augurarsi che l’Italia resti un paese pacifico. E non sia costretto ad affidarsi al sacrificio di troppi ragazzi in divisa.
Giampaolo Pansa


Franco Bechis
Ieri, mettendo la notizia dell’attentato a Maurizio Belpietro sulla mia pagina Facebook, fra i tanti commenti uno mi ha colpito più di altri. Era di un collega giornalista di altra testata, che per altro conosco da quando eravamo ragazzini, anche se ci siamo persi di vista. Per compassione non cito il nome, ma quel che ha scritto pubblicamente sì. “Avete finito gli spunti sulla casa di Montecarlo e la cucina Scavolini e bisogna ritirare fuori dall’armadio la paura dei terroristi? Dai Franco su! E ti offendi se ti dico che visto da lontano il misterioso attentatore di ieri mi ha ricordato una certa microspia che un certo signore si era messo da solo in ufficio...o forse se l’era fatta piazza redala(s)vitola?”. L’ex ragazzo è di sinistra, nuova tendenza finiana che fa tanto à la pàge, e pur avendo media intelligenza e un mestiere che dovrebbe prima di tutto insegnare a guardare i fatti e raccontarli, ha bruciato tutti nello sprint risolvendo il caso Belpietro come dopo qualche giorno molti internauti fecero con l’attentato di piazza del Duomo a Silvio Berlusconi. Il direttore di Libero si è sparato da solo ed è così furbo che ha fatto pure cilecca. Esattamente come allora addirittura con pseudo-perizie balistiche la nuova sinistra di Internet stabilì che Berlusconi la statuetta in fronte se l’era tirata da solo. E che il sangue era tutto una finta: succo di pomodoro già pronto per sceneggiare il tutto.
Fosse la follia o la semplice idiozia di qualche adolescente in preda al fumo, non varrebbe nemmeno la pena di citarla. Ma il fenomeno è assai più diffuso di quanto non si immagini. E molto più insidioso di quanto non appaia. Da anni siamo ipnotizzati da tabù come la libertà assoluta della rete, dove tutto scorre e tutto si può dire come in un mare tranquillo. Non c’è limite all’insulto, non c’è limite alla diffamazione, non c’è un confine fra il grottesco, il cattivo giusto e il rischio vero. Ogni tanto si leva qualche allarme perché il cattivo gusto straborda e va a colpire quel si sente politicamente corretto. Quei gruppi che nascono dal nulla “per uccidere i bambini”, “per bastonare i cani” e amenità simili. Magari sono quattro gatti, finiscono sui giornali e si fanno pure la pubblicità che volevano. Probabilmente
sono assai più innocui delle bestialità che dicono. Lo sono molto meno altri gruppi organizzati: “il popolo di Grillo”, “il popolo viola”, i nuovi movimenti politici che nascono sulla rete o su Facebook. Andatevi a leggere le loro discussioni, i toni, le sicurezze mostrate, l’odio che trasuda per gli avversari politici.
RICORDI SINISTRI
Non sono così diversi da quel che leggevamo nei tazebao e nei foglietti della sinistra estraparlamentare negli anni in cui questa confinava e diveniva spesso serbatoio delle Brigate Rosse, di Prima Linea, del terrorismo. Allora si fecero molti errori a sinistra, ma gran parte del paese e
del partito comunista seppe comprendere e individuare quel confine e riuscì ad alzare barriere, a costruire quel muro di resistenza che alla fine fu decisivo. Oggi no, avviene l’esatto contrario. Una sinistra incapace di trovare un suo popolo (gli operai non ci sono più, la Lega domina le fabbriche del Nord) ha adottato quella massa gelatinosa e confusa che si proclama “popolo web”. Non sa nemmeno chi siano, chi si nasconda dietro gruppuscoli e sigle, ma li coccola, li accarezza, li chiama a raccolta quando ha bisogno di riempire le piazze. Il Pd è cascato in questo lago melmoso e rischioso con un pizzico di prudenza e qualche dubbio. Altri invece ne hanno fatto il proprio potenziale politico: Beppe Grillo, Antonio Di Pietro, che non usano più quello come strumento di azione politica, ma si sono proposti essi stessi come strumento vivente di quel gruppo non-so-chè che può dire qualsiasi cosa in libertà. Hanno cambiato il loro linguaggio, sposato la rete che è tutto e nulla e addirittura portato in Parlamento, come ha fatto Di Pietro nel recente discorso sulla fiducia a Berlusconi, quello stile libero e diffamatorio protetto dal tutto-si-può-dire-in-rete. Questo modello ha la sua apoteosi in tv nell’Annozero di Michele Santoro. Uno show a tesi che si mischia alla rete, espone “popoli” incazzati e aizzati verso l’avversario politico, parla alla pancia e scatena passioni. Anche e soprattutto l’odio. Ci pensavo ieri mattinamentrevenivoinredazioneaMilano: “Perché Belpietro e non un altro?”. E mi venivano in mente le tante volte che Maurizio è stato ospite da Santoro. Circondato, messo in un angolo da cui usciva grazie agli argomenti e alla sua capacità dialettica. Ma nella sceneggiatura destinato a rappresentare il cattivo per quel “popolo”.
HANNO SCELTO NOI
Non ho alcun elemento per dire che lì può trovarsi o meno il movente. Ma ho letto le parole d’odio che in libertà circolavano su siti Internet, reti e forum anche di autorevoli giornali dopo quegli interventi. Non promettevano nulla di buono, e così mi sembra sia avvenuto.
Sulla rete, è vero, circolano le più incredibili sciocchezze, ed è difficile cogliere quel che ha sostanza e quel che è solo stupida leggerezza. Ricordo però che da lì partì il grande movimento per impedire il bavaglio alla libera stampa che questo governo avrebbe messo, e che mai in realtà è stato messo. Quel movimento fu appoggiato e coccolato da autorità istituzionali, da leader di partito, dai vertici di sindacato e ordine dei giornalisti. Tutta gente che considera normale che un giornalista per dire quello che pensa e fare ogni giorno il suo mestiere debba da otto anni essere controllato da una scorta armata. Che dall’altra notte è raddoppiata. Questo sì che è un bel bavaglio, e di piombo. Ma quanti di questi signori sono disposti a organizzare una manifestazione a piazza Navona per difendere la vera libertà di espressione così messa a rischio? Ne siamo certi, nessuno.
Franco Bechis

Filippo Facci
È come se le saracinesche dell’informazione fossero rimaste inceppate per tutta la notte sino alla tarda mattinata di ieri salvo rompersi verso le 11.00, quando le notizie e le reazioni hanno cominciato a fluire e a raccontare che cos’era effettivamente successo a Maurizio Belpietro. Qualcosa, appunto, da principio aveva inceppato un meccanismo che pareva indeciso circa la categoria giornalistica in cui inquadrare la faccenda: solo questo, l’altra notte, spiega l’assenza di cronisti e giornali (salvo un paio) e spiega che molti quotidiani non hanno fatto una cosiddetta “ribattuta” nonostante il fatto risalisse a prima delle 23, e il primo lancio d’agenzia a mezzanotte e 17. Poi, certo, c’era anche il Corriere in sciopero. Pazienza, quindi, anche se il telegiornale de La7, nella sua prima rassegna stampa, si sia limitato a dire che «un uomo avrebbe potuto aggredire Maurizio Belpietro»: la notizia non era ancora chiara, anche se tre quotidiani già la urlavano in prima pagina. Molte più perplessità destava però la rassegna mattutina del Tg3: alle 6 e 18, in dieci secondi, liquidava la notizia in coda al notiziario e prima del «Cis, viaggiare informati» con annessa diretta da Sette Bagni. Anche il Gr1 delle 7.00, diversamente dal notiziario di Radio24, ignorava la notizia tra i lanci d’apertura, diversamente dal golpe serale in Ecuador che nessun media italiano ha osato snobbare. Il tutto inversamente proporzionale al diluvio di lanci e reazioni e allarmi e indignazioni che dal pomeriggio di ieri hanno invaso redazioni e radio e tv: l’attentato era stato inquadrato e sdoganato, non c’è stato più nessuno che abbia omesso di dire la sua, forse no, non era una cazzata di Libero o del Giornale, non era solo una scusa perché un Capezzone o una Santanchè puntassero il dito contro il solito «clima».
A SCOPPIO RITARDATO
Ecco che da allora si sono mossi praticamente tutti, comprese sigle e personalità giornalistiche che mai l’avrebbero fatto per primi: perché devono passarne ancora tanti, di anni, perché un direttore di centrodestra sia considerato alla stregua di qualsiasi altro. Nel frattempo partiva quel genere di esercitazione dietrologica che non necessita neppure di informazioni precise. Il clima, il clima: eppure le dissertazioni meterologiche servono relativamente, lo sappiamo tutti, sono robaccia da bega politica. Anche l’eterna caccia alle analogie («È come negli anni Settanta») lascia il tempo che trova: il clima forse può favorire, ma mai realmente causare. E comunque no, a pensarci bene non è come negli anni Settanta, e neanche Ottanta, e neanche
Venti o Trenta: è come nel 2010, l’altra notte era soltanto come il 30 settembre 2010 e forse c’è qualcosa di nuovo da capire, da sapere, da analizzare, qualcosa che magari non c’entra niente con le tiratrici di lacrimogeni ai sindacalisti o coi dissociati mentali che lanciano souvenir, qualcosa che potrebbe non c’entrare nulla neppure con la memorialistica di quei giornalisti che «ai miei tempi era peggio» e che cercano solo l’occasione per ridiscutere degli Anni di Piombo, all’eterna ricerca di brandelli di giovinezza.
QUALCOSA DI NUOVO
L’altra notte il presunto attentatore di Maurizio Belpietro non era né un pazzo improvvisato né un marine specializzato. Di pazzi Belpietro ne ha visti tanti (io lo so bene) e i pazzi surriscaldati dal «clima» s’avventano scompostamente in redazione com’è già successo in precedenza, oppure attaccano per strada, s’infiltrano tra il pubblico, sono molle caricate loro sì dalla tensione sociale. Ma un pazzo, o un ladro comune, non è informato degli orari di rientro del direttore dalla redazione o dall’aeroporto, non conosce l’indirizzo preciso e il piano preciso in cui vive con la sua famiglia; un pazzo o un ladro non calcola che il caposcorta al solito ridiscende in ascensore e non certo per le scale, scelta eccezionale perché l’agente si era appena acceso una sigaretta. Un pazzo o un ladro non conosce via di fughe alternative così da riuscire a dileguarsi a fronte di due professionisti ben addestrati.
D’altra parte le forze dell’ordine sanno bene che il presunto attentatore potrebbe non essere un navigato professionista: da una parte perché l’attentato non è riuscito (si dice sempre così, quando non riesce) e dall’altra perché un professionista di norma non si fa beccare con la pistola in pugno e neppure tenta di sparare: in fondo gli bastava aspettare un minuto d’orologio, nascosto in cortile, e il caposcorta se ne sarebbe andato. Comprendere perché un uomo impugnasse una pistola vicino alla porta di Maurizio Belpietro, in sostanza, resta materia tecnica per gli inquirenti e tutto il resto è banale esercitazione, per ora. Diversamente da molti, però, non nascondo la sensazione che non mi sento di motivare, adesso che qualcosa di nuovo e di imprevisto stia socialmente accadendo in questo Paese. Quel tizio, forse, non era un pazzo, non era un ladro e non era un professionista. Ma è proprio questo a inquietare. Era qualcosa di diverso. Di nuovo.
Filippo Facci
Renato Farina

Quasi gli riusciva il colpo. Tre su tre. Due con le sospensioni dall’Ordine, con il bavaglio pseudo legale. Uno con le pallottole. Feltri, Sallusti, Belpietro.
Hanno cercato di far fuori te sulle porte di casa, caro Maurizio, e ti abbraccio forte. Penso alla tua famiglia, ne so qualcosa. Hai reagito con serenità e coraggio, con la testa lucida. Grazie. Dico però che in fondo sarebbe stata una forma di giustizia rossa più spiccia di quella che temo adesso di rovesciarti sulla schiena. Attento alla mia solidarietà. Potrei essere un amico del giaguaro, un agente provocatore. Infatti questo articolo, se hai la voglia di pubblicarlo e chissà mai di pagarmelo, potrebbe essere una buona occasione per riuscire a farti tacere senza spargimenti di sangue che sono sempre di cattivo gusto. Ti attirerei, se c’è coerenza nell’Ordine dei giornalisti, una sospensione sicura, con tutti crismi della legge e della moralità. Calpesterebbero con ciò la Costituzione e la convenzione europea dei diritti umani. Ma siccome non sei dei loro, si procederà. Incurante del fatto che il diritto alla parola di un direttore si esercita scegliendo quale voce far udire.
Scrivo tutto questo con amarezza perché sono diventato un bastone nella mano dei manganellatori della libertà. Appena mi muovo, mi afferrano e divento una clava sulla testa di amici. Ma adesso c’è un allarme che vorrei segnalare, lo faccio da deputato, e forse questo ti preserverà dalla punizione.
I più importanti giornalisti del centrodestra si trovano oggi in questa condizione:
1) Vittorio Feltri ha una sospensione dall’Ordine che gli pende sul capo. L’ha sanzionata il Consiglio regionale di Lombardia (6 mesi più 2). Ne dibatterà a novembre il Consiglio nazionale. Uno dei motivi della punizione ma è quello di fatto scatenante e che mostra la filosofia dei simpatici colleghi è il fatto che Feltri ha interpretato alla lettera l’articolo 21 della Costituzione e ha deciso di lasciarmi pubblicare sul Giornale i miei modesti scritti. Ha ragionato: Farina sarà radiato dai giornalisti, ma pur essendo Betulla non è un albero e dunque non è espulso dal consesso umano. Nulla e nessuno può revocare il diritto umano ad esprimersi. L’“Espresso” ha pubblicato con molta solennità un articolone dello stragista ergastolano Spatuzza, ma io accusato di aver collaborato con i servizi segreti italiani e perciò da
essi stipendiato (non è vero, ma qui rinuncio a difendermi) sono un intoccabile. Chi mi tocca è morto.
2) Alessandro Sallusti è sottoposto a giudizio disciplinare per lo stesso motivo. Si riferiscono però al tempo in cui era direttore di “Libero”, cioè fino al luglio del 2008. Dovrà rendere conto all’Ordine di questa sua scelta. Tra l’altro fu già a suo tempo chiamato a risponderne mentre ero soltanto sospeso, e avevo mandato un solo articolo in forma di lettera. Ma la cosa finì lì. Ora ricominciano.
3) Claudio Brachino, direttore a Mediaset. Sospeso perché ha osato mandare in onda un filmato irriverente su un giudice che passeggiava, facendo notare la scarsa eleganza dei calzini. Non sono servite le sue scuse. (A Berlusconi si può dare del delinquente, niente scuse, e non succede niente).
4) Faccio il delatore. Nel periodo di interregno tra Sallusti e te, Maurizio, ha preso il timone per quindici giorni Gian Luigi Paragone. Ho firmato quasi tutti i giorni. Magari l’Associazione di cittadini zelanti e armata di bavaglio chiamata Pannunzio, che ha forti rappresentanti proprio nell’Ordine, potrebbe beccare pure lui.
5) Non in graduatoria di importanza ci sei tu, Maurizio Belpietro. Sottoposto ad attentati alla tua persona, e probabilmente con una pena di morte deliberata in qualche covo e ancora sospesa sulla testa. Forse rifiutando a suo tempo la generosa offerta che mi hai destinato di scrivere per “Libero” ti ho esposto ai colpi di pistola, preservandoti dal fuoco dei pistola.
6) Mi metto ultimo della fila, proprio in fondo, ma ci sono pure io. Tu mi hai criticato, dici che ho sbagliato. Accetto il tuo giudizio, a malincuore, ma lo accetto; è lo stesso di Feltri e Sallusti. Avrei preferito ti confesso la galera ma poter respirare, che per me è scrivere sull’oggi, avere dei giudizi e manifestarli, anche troppo, ma non credo che il diritto di espressione e di parola stabilisca per legge la modica quantità, mica è una droga.
L’odio può avere molte forme, all’odio ogni strumento va bene. A noi no. Invito la nostra gente alla vigilanza. Si vogliono far tacere le voci libere. Con me ci sono riusciti, non devono farcela con gli altri. Ho parlato, dopo di che rientro nella tomba.
Renato Farina

Nuzzi
Quattro impronte parziali sul passamano a due metri da casa Belpietro. Vengono ricostruite dalla scientifica. Quella da anfibio invece è ancora lì. Sporca, appesa al muro del secondo cortile di via Monte di Pietà, il palazzo che si affaccia ovunque: la Scala, Brera, il Castello Sforzesco.
Un labirinto di ipotesi con le telecamere private, quelle della Questura e persino i nastri degli occhi ai varchi Eco-pass presi di buon’ora dalla Digos per riavvolgere gli ultimi giorni dentro e fuori il palazzo. Così i tabulati delle celle dei cellulari.
Ma l’ombra di quest’uomo atletico con una camicia verdegrigia tipo atlantico a mezze maniche, i pantaloni di una tuta, si è come persa. I primi
risultati sono negativi. Eppure, con una camicia così, «con delle specie di mostrine al collo» è il ricordo del caposcorta nelle relazioni di servizio non passi inosservato. E l’ora era abbastanza tarda per la zona, in una notte di mezza settimana. Al di là di Bulgari, albergo e ristorante di lusso, non c’è granché. Bisogna spingersi in via Manzoni per trovare qualche locale. Sarà quindi perché c’è un unico testimone che nessuno tra gli inquirenti della polizia, tra i
pm Maria Grazia Pradella e Armando Spataro, ha capito bene quanto accaduto e cosa possa nascondersi dietro questa brutta pagina, la peggiore forse che avremo finora potuto solo immaginare, nemmeno scrivere.
IL PIANO
Tre sono le ipotesi che si seguono. La prima è la più lineare e coerente con il clima d’odio che si respira. Ovvero che un singolo uomo abbia pianificato l’aggressione a
sui parcheggi interni, le finestre di casa illuminate di vita e voglia di normalità. È da questo angolo di penombra e di fuga che il finto finanziere ha guadagnato la libertà dopo esser sfuggito a tre colpi di calibro 9 del caposcorta del nostro direttore. I tubi ai quali aggrapparsi, le viti che li sorreggono come allentate: persino un ragazzino sveglio salterebbe il muro. Da qui sei
LA CASA
Un’auto della polizia davanti all’abitazione a Milano del direttore Maurizio Belpietro all’indomani dell’attentato fallito. La procura di Milano ha aperto un fascicolo, a carico di ignoti. Diffuso l’identikit: si tratta di un uomo sui 40 anni,altocirca1metroe80. Ansa
tano il movimento delle “lotte carcerarie” e i tentativi di creare collegamenti generazionali tramite Soccorso Rosso Internazionale, l’organizzazione basata in Svizzera, che sul web inneggia ancora a Mario Galesi come a un eroe caduto per la causa del proletariato.
Senza escludere a priori l’ipotesi di un sicario o di un lupo solitario, è nell’area dell’estremismo anarco-comunista che si annidano gli elementi più pericolosi. È lì che sono emersi i collegamenti fra gli ambienti brigatisti romani, milanesi, liguri e sardi che tentavano di riaggregare le forze rivoluzionarie vecchie e nuove, come spiegava l’ultima relazione dell’intelligence al Parlamento.
Si fanno proseliti durante le iniziative di protesta violenta, sulla scia degli scontri dei
terremotati aquilani, nelle manifestazioni antimilitariste come le marce vicentine contro la base Nato, nei campeggi estivi di Malga Zonta nel Vicentino, nei campi antimperialisti che si svolgono in tutt’Italia durante il periodo estivo. Se anche lì le reclute scarseggiano, ci si rivolge ai compagni all’estero, almeno a quelli più fidati come gli spagnoli del Grapo. Strategicamente, si lanciano messaggi di solidarietà anche ai “prigionieri di guerra arabi”, pur prendendo le distanze dalle loro battaglie fondamentaliste islamiche. Ma non si sa mai. Anche loro possono sempre tornare utili per un appoggio logistico, per un soggiorno in qualche campo di addestramento, per una fornitura di armi ed esplosivo in cambio di altre merci.
Poi scatta la fase della preparazione politico-militare. E, proprio quando tutto tace, si pianificano le azioni armate. I commando pronti ad aprire il fuoco contro i nemici del popolo sono già pronti. Aspettano soltanto il momento opportuno.
Maurizio Belpietro. Uno studio minuzioso delle caratteristiche del palazzo dove abita, delle via di fuga e dei movimenti e tempi di ogni agente di scorta. Un’analisi delle ipotesi per aggredire il direttore dopo aver cercato i punti deboli della sua protezione, dello scudo degli agenti della scorta. E qual è l’attimo più propizio, il momento che ogni giorno si ripropone, quello del calo dell’attenzione e delle difese? Proprio quando Belpietro saluta ogni sera il suo angelo custode sull’uscio di casa.
IL CONGEDO, I COLPI
I due uomini di scorta sono divisi. È tardi, la stanchezza di tutti, la voglia di andare a casa sotto le coperte. «Dottore, a che ora ci vediamo domani?». «Passate alle 8».
Maurizio chiude la porta, l’agente se ne va. Se suoni alla porta un paio di secondi dopo il saluto, il direttore sarà distratto, disarmato, inerme. Ed è quasi sicuro che aprirà la porta senza guardare nello spioncino, convinto che si tratti ancora del poliziotto. Magari si è dimenticato di dire qualcosa: aspetta, vediamo che vuole... E nel momento dell’incertezza, se pure avesse guardato nello spioncino, si sarebbe rassicurato vedendo la divisa. Magari convinto con una scusa, studiata da tempo. Su questa ipotesi si spiegherebbe anche seppur a fatica la micidiale reazione una volta scoperti sulle scale.
Chissà se l’aggressore voleva intervenire davvero a campo libero oppure sparare mentre il direttore si congedava sul pianerottolo. Perché anche questa è una ipotesi da valutare quando un uomo manifesta la freddezza di puntare l’arma al volto, come accaduto, premendo il grilletto per uccidere. Vuol dire che accetti il rischio e sei disposto a tutto. Vuol dire che la vita degli altri in quel momento non conta nulla. Vuol dire che la spinta criminale è tale che niente ti ferma.
Nulla può farti fare la fine del topo, e soprattutto il tuo piano è troppo perfetto perché l’imprevisto possa polverizzarlo. Purtroppo la scelta diversa, l’agente che scende le
scale a piedi piuttosto che infilarsi in ascensore spariglia il progetto con una reazione istintiva, micidiale, senza ritorno. Punta e prova a sparare. E qui accade qualcosa ancora di imprevisto. La pistola, racconterà il caposcorta, si inceppa. Il poliziotto si salva e si dà all’inseguimento, ma l’uomo ha il vantaggio psicologico di aver provocato il terrore, e quello della volontà di mettersi in salvo. Sparisce.
COMMANDO? FURTO?
L’altra ipotesi, già più scolastica, è più articolata. Si valuta la presenza di un commando. Al momento però non compaiono complici sulla scena del crimine. Solo nelle prossime ore, dai rilievi della scientifica, dalle telecamere (in realtà sempre ingenerose in questi casi), si saprà se c’erano altri protagonisti. Qualcuno di sostegno: un palo, un autista. O forse persino qualcun altro, magari introdotto nel palazzo. La presenza dell’abbigliamento militare, l’ipotesi dell’aggressione con l’inganno, i precedenti utilizzati dai gruppi terroristici negli anni ’70 impongono sulla scena altre figure. Che, almeno per ora, mancano.
Queste incertezze portano gli inquirenti all’ultima ipotesi, ovvero all’errore e alla fatalità. L’obiettivo non è Belpietro, né la sua casa. La presenza di quell’uomo è per un motivo ancora sconosciuto. Una rapina, un furto, una vendetta. Eppure le due porte che si affacciano sul pianerottolo sono entrambe della casa di Maurizio. E allora che ci faceva lì, a una manciata di scalini?
Ancora: una volta scoperto non spiega, anzi. Offre una reazione micidiale, incompatibile con il topo di appartamenti. Mira per uccidere, per non essere catturato. E questo si coniuga solo con un movente inconfessabile e una determinazione spietata. Che è appunto quella dell’attentato, dell’agguato sfumato per una fatalità, della prima ipotesi lì sotto gli occhi di tutti. Di chi non vuol vedere. Di chi non vuol prendersi responsabilità. Che sono, innanzitutto, morali.
Gianluigi Nuzzi

Giampiero Mughini
Che cosa sta succedendo in una società pur aperta e polifonica dove un quarantenne qualsiasi monta le scale dell’appartamento milanese di un direttore di giornale armato di una pistola? Siamo dunque all’inaugurazione di una stagione bis del terrorismo armato dei Settanta, degli anni di piombo, degli agguati mattutini a giornalisti, magistrati, commissari di polizia? Il quarantenne milanese di cui ho detto è il prosieguo in linea diretta degli assassini di Walter Tobagi, Carlo Casalegno, Luigi Calabresi?
In attesa di saperne di più, la mia risposta a quest’ultima domanda è no. E su quest’ultimo punto la mia opinione diverge da quella del mio amico Giampaolo Pansa che più e più volte, su questo stesso giornale, ha scritto di aspettarsi una riedizione dell’orrore degli anni Settanta. In attesa di saperne di più. Di sapere se il demente che girava armato di pistola per le scale di casa Belpietro era un giocatore solitario, uno psicopatico alla maniera di quello che assassinò John Lennon e che confesserà più tardi di averlo fatto perché non aveva altro modo di diventare famoso, o invece il membro di un’organizzazione e di una gang votata all’odio e all’assassinio del nemico politico. E con tutto ciò, anche in questa seconda ipotesi saremmo comunque lontani dalla saga orrenda degli anni Settanta. È stato detto e ridetto, che le tragedie non si ripetono tali e quali; che la prima volta era una tragedia, la seconda volta una farsa.
Mi rendo conto perfettamente che il dolore di Silvio Berlusconi al ricevere in volto una statuetta che gli aveva scagliato un miserizzi “incapace di intendere e di volere” non l’ha presa a ridere, come si fa con una farsa; mi rendo conto perfettamente che non è stato da ridere quando il segretario della Cisl Raffaele Bonanni s’è visto arrivare addosso un fumogeno che gli aveva scagliato contro una bella brunetta figlia di un magistrato: mi rendo conto che non deve essere stato da ridere quando Maurizio Belpietro e la sua famiglia hanno sentito gli spari fuori dalla porta di casa loro. E con tutto dobbiamo sforzarci a trovare le parole giuste per questi
fatti dei nostri giorni, per queste tragedie dei nostri giorni.
Il male più grande
Che nascano dall’odio e dalla faziosità politica che oggi respiriamo assieme all’ossigeno, non v’ha dubbio. La ragazza Rubina, quella che ha tentato di fare il
maggior male possibile non a un comandante delle Ss e bensì a un dirigente sindacale, è di per sé da lasciare sbalordita. A un giornalista che la interrogava lei ha detto che aveva tutto il diritto di non “far parlare” Bonanni, cioè di non farlo esistere. La povera demente non ci pensa neppure un attimo che a metterla
così i nazi avrebbero potuto dire che loro avevano il pieno diritto di mettere a tacere gli ebrei polacchi o ucraini, o che i fascisti triestini avevano il pieno diritto di far ingoiare all’organista sloveno Lojze Bratuz, colpevole in tutto e per tutto di aver diretto in lingua slovena un coro di Natale, dell’olio lubifricante che lo fece
morire dopo un paio di settimane fra atroci dolori. O la ragazza Rubina, e ammesso che sappia ragionare di qualcosa, distingue nettamente tra l’ingoio a forza di olio lubirificante e il lancio al corpo di un fumogeno? E con tutto questo la ragazza Rubina non è una riedizione delle ragazze delle Brigate Rosse, di
quelle che partecipavano agli agguati a uomo, e ce n’era sempre una di loro in giro quando si trattava di aggredire e uccidere alle spalle.
La ragazza Rubina è un fenomeno nuovo, la figlia di un tempo nuovo. È la figlia dei blog deliranti, quelli dove si plaude alla morte di Francesco Cossiga e ci si augura che venga presto la fine di Giulio Andreotti, e purché questa fine sia lenta e dolorosissima.
La figlia di un tempo in cui assurgono al ruolo di guru ideali personaggi vociferanti come Beppe Grillo e Antonio Di Pietro. La figlia del tempo in cui non c’è idiota che non assurga al ruolo di editorialista e opinionista a forza di scrivere sms intinti unicamente nell’inchiostro dell’odio politico-ideologico. È la figlia di una società massmediatica dove l’insulto e lo schiamazzo la fanno da padroni. Beninteso provo orrore per quello che Umberto Bossi ha detto dei romani (salvo poi rimangiarselo), ma provo orrore anche per l’italiano approssimativo e balbettante di Di Pietro che sta insultando il capo del governo nell’aula di Montecitorio.
Insulti alla famiglia
Nel mio piccolo così piccolo scrivo una volta a settimana un articolo per il portale giornalistico di Tiscali. I 25 lettori che mi conoscono sanno che non insulto mai nessuno, che non impugno mai la scimitarra, che non sono mai né tutto di qua né tutto di là. Ebbene mi arrivano commenti dove si augurano che qualcuno stupri mia moglie e mia figlia (non ho nessuna della due), tanto che loro possano levare una bottiglia e brindare dalla felicità. Una frase che io non adopererei né contro Goebbels né contro un torturatore cileno né contro un serial killer. Non lo farei per rispetto di me stesso. Per loro è l’unico modo di esprimersi, l’unico modo di balbettare quella lingua straniera che è l’italiano. Ma che rispetto di se stesso volete che abbia quel demente con la pistola che montava le scale di casa Belpietro?
Qui siamo, qui viviamo. Alzi la mano chi si reputa innocente di questo clima, di questo andazzo. Non credo che sarebbero tantissime le mani che hanno il diritto di alzarsi.
Giampiero Mughini