Giuseppe Salvaggiuloli, La Stampa 2/10/2010, 2 ottobre 2010
GIUSEPPE SALVAGGIULO
BOLOGNA
A Samuele Bersani, cantautore visionario e di profonda levità che compie 40 anni festeggiati «con una lunga bicchierata sotto un portico di Bologna», non si può non chiedere se è felice. «Sempre a metà. Ma quando vedo tanta gente ai concerti e comincio a cantare, sono l’uomo più felice del mondo».
I primi auguri?
«Dalla mamma, anche se sono tutt’altro che mammone. In realtà Facebook arriva prima di tutto, a volte sembra il cimitero dei vivi, di cui anch’io faccio parte. Il lato positivo è che da come uno ti scrive capisci subito quanto bene ti vuole».
I 40 sono come la fine del primo quadrimestre. Che voto ti daresti?
«Darmi un voto? No, e poi ci sarebbero tante materie... Mi sento al primo giorno dell’anno. La scusa dello zero mi serve per resettare, cominciare a fare un po’ più sul serio. Ho l’impressione di dovermi ancora costruire. Sono nato figlio unico e ancora un po’ lo sono. Non ho un figlio, i miei sono stati più coraggiosi. A 30 anni scrissi: Adesso faccio un figlio. Ora sono a 40 e non ci ho provato. Una famiglia è la cosa che cambierebbe la vita».
Dal punto di vista professionale?
«Non mi sono mai pentito della coerenza anche se non paga. Mi sento dispari rispetto al contesto. Non sono l’unico, penso a Silvestri o la Consoli. Non per fare Greta Garbo, ma la tv da cui sono scappato ha rincoglionito la mia generazione, per non dire delle successive».
Rimpianti?
«Avrei dovuto avere coraggio quando Ramazzotti mi chiese di scrivere un testo: due mondi che si incontravano. Ma in quel periodo ero fuori fuoco, alle prese con la prima grande delusione privata. Uno choc che mi impediva di scrivere».
Con chi ti piacerebbe lavorare?
«Mi piacerebbe scrivere con Silvestri. E considero Battiato un punto di riferimento. L’ho conosciuto, ma non sono abbastanza sfrontato, come un ragazzo che colleziona figurine quando trovo uno scudetto la devozione è tale che ho paura di incollarlo storto. Conoscerlo, aver scoperto la sua simpatia mi basta».
Ci sono canzoni che invidi?
«Alfredo dei Baustelle, Meri Luis di Dalla, Le mie parole di Pacifico».
Quella perfetta?
«Sicuro precariato. Argomento complicato a rischio retorica. Mi identifico nel supplente, non mi sento di ruolo. Replay, bella anche piano e voce. E poi Il mostro, scritta senza sapere nemmeno cosa fosse la partita Iva».
E ora con la partita Iva come va?
«La commercialista sa che non capisco nulla, ma ho l’orgoglio di pagare tutte le tasse. Come per il mio babbo il rosso del semaforo è sempre rosso. Ci si ferma».
A proposito, il mostro della tua prima canzone ha ancora paura?
«C...o se ha paura, da morire. L’Italia è sempre più delirante, Shakespeare si sarebbe divertito un sacco».
Il primo album era Ci hanno preso tutto. Abbiamo ritrovato qualcosa?
«Io qualche foto a cui ho tolto l’effetto antico con photoshop. Avevo già capito tutto con quel titolo. Respiro in anticipo l’aria in arrivo. Le prime righe di Caramella smog del 2000 sembrano scritte stanotte: per la crisi si potrebbe licenziare un terzo degli operai, ma sarebbe imperdonabile vendere il centravanti...».
Nell’ultimo album di sabbie mobili, villette degli orrori, mercurocromo sul ginocchio. Apocalisse pulp.
«Il dettaglio serve per descrivere, la zoomata è fondamentale per raccontare una storia, solo che ormai la realtà supera la canzone. Le notizie non si attaccano mai sulle pareti del cervello, come post-it senza colla. La realtà è pornografica».
Quest’Italia non ti piace.
«Sono arrivato persino a dire: benedetta Prima Repubblica».
Chicco e Spillo oggi che farebbero?
«Rubavano un motorino, oggi ruberebbero una city car. La canzone è finita, ma i personaggi sopravvivono in un mondo parallelo. Qualche anno fa ho immaginato che il fratello più grande, sopravvissuto, avrebbe aperto un negozio di cellulari. Oggi sarebbero smart phone».
Tornerai al festival di Sanremo?
«Dipende dalla canzone. Con Replay sì. È dimostrato che non fa vendere dischi. Ma è uno dei ricordi più belli della mia vita».
Hai poi letto Freud?
«Conosco già da solo le mie patologie».
Potrei ma non voglio, come in Giudizi universali, o vorrei ma non posso?
«La prima, nella vita non sopporto coperchi e non indosso cappelli di altri».
Come sta la canzone impegnata?
«Che palle! Io racconto storie che sogno, non è che uno si mette a tavolino e dice: ora scrivo un disco impegnato».
Tu alla Woodstock di Grillo: perché?
«Da anni seguivo il suo sito, è una bella lavagna di proposte. Sul palco ho fatto un discorso di pancia: non mi fido più del Pd e la prossima volta voterò Grillo, l’unico che aderisce alle mie idee».
Altro che scrutatore non votante.
«Ma io non lo sono mai stato. Anche nel disgusto bisogna aggrapparsi a un filo di cotone. La mattina dopo su Facebook sono piovuti i primi vaffa. Il senso è: mi piaci per Spaccacuore, non puoi votare Grillo».
E tu che rispondi?
«Non ho tradito nessuno, mi sento tradito da anni senza opposizione. Vengo da una famiglia comunista, ho votato a sinistra sempre con più difficoltà man mano che cambiavano le consonanti».
Ma ora c’è un Bersani leader del Pd.
«Ovunque mi chiedono se sono suo figlio. E io: scusate il cognome, ma per lo meno non mi chiamo Berlusconi. Ci siamo incontrati, è una persona onesta ma forse aveva più carisma quando non era il leader. Parla con i proverbi dei veterinari».
Il presente è su un biliardo pendente e va tenuto fermo con la mano, canti nell’ultimo disco. E il futuro?
«Un figlio a cui lasciare il mio pianoforte».