Alberto Mattioli, La Stampa 2/10/2010, 2 ottobre 2010
Nella bibliotechina dell’operomane era davvero il libro che mancava. Il soggetto, in effetti, non è dei più scontati: i controtenori
Nella bibliotechina dell’operomane era davvero il libro che mancava. Il soggetto, in effetti, non è dei più scontati: i controtenori. In sintesi e facendo al tara alle dispute terminologiche (si sa che, quanto a capziosità, rispetto ai vociologi italiani i teologi bizantini erano dei dilettanti), sono quei cantanti maschi e con tutti, diciamo così, i pezzi al loro posto che cantano in falsetto le parti scritte per i castrati. E appunto Controtenori (ovvero «La rinascita dei “nuovi angeli” nella prassi esecutiva dell’opera barocca», Zecchini Editore, pagg. 218, euro 20) s’intitola il bel saggio di Alessandro Mormile appena pubblicato. È il primo scritto in Italia sulle voci bianche di oggi, mentre quelle di ieri, appunto i castrati, sono oggetto di una specie di culto morboso che ha prodotto diversi libri, molte sciocchezze giornalistiche e perfino un (pessimo) film sul più celebre di loro, Farinelli. Mormile è uno studioso torinese che sull’argomento la sa decisamente lunga. Il suo è un censimento dei controtenori passati (perché è una tradizione antica, almeno nei Paesi anglosassoni), presenti e anche futuri, visto che sono indicati quelli che saranno famosi. Non entriamo nei dettagli delle varie scuole (in sostanza due: quella inglese degli epigoni di Alfred Deller, più angelicata e asettica, e quella americana, nume tutelare Russell Oberlin, più teatrale ed estroversa) perché qui il discorso si fa davvero per appassionati. Ma discografia e cronologia, frutto di un lavoro e di una passione egualmente smodati, saranno d’ora in avanti imprescindibili. Restano due questioni. Diamo subito un taglio (oops...) alla prima. No, i controtenori non hanno affatto la voce dei castrati. Se si ascoltano i dischi dell’unico che abbia fatto in tempo a inciderne, Alessandro Moreschi, operato, ahilui, poco prima di Porta Pia e, ahinoi, davvero l’ultimo avanzo della stirpe infelice, si sente un adulto che canta con la voce di un bambino. Ma, poiché nemmeno i pasdaran più feroci della musica antica hanno mai proposto di ricominciare a evirare ragazzini, i controtenori restano l’unica alternativa alle donne. Se non riproducono la voce dei castrati, la evocano. E soprattutto forniscono quell’alterità timbrica e sessuale, quell’aspetto irreale e «magico» che è una componente fondamentale dell’opera che, per convenzione, chiamiamo «barocca». Risultato: oggi i vari David Daniels, Andreas Scholl, Bejun Mehta, Lawrence Zazzo, Philippe Jaroussky, Max Emanuel Cencic sono delle star (esattamente come i loro predecessori, ma senza sacrifici personali), trionfano in teatro, incidono dischi, rilasciano interviste, vanno in tivù e sono seguiti da codazzi di fan. Dappertutto tranne che in Italia, la solita avanguardia della retroguardia, dove l’opera barocca la si fa poco e generalmente la si fa pure male. E dire che Monteverdi o Cavalli o Händel sarebbero cosa nostra... E qui siamo alla seconda questione. Perché questa musica a noi «parla» mentre non diceva nulla ai nostri nonni? Come al solito, il passato è lo specchio dove guardare il presente. Allora l’opera barocca con i suoi inverosimili incanti diventa oggi un coloratissimo videoclip in formato gigante cui si richiede «la meraviglia», non la verosimiglianza. E in un’epoca di allegra confusione sessuale torna a essere in qualche modo «normale» che Orfeo o Rinaldo o Orlando cantino con voce bianca nei giardini d’Armida e sulle isole d’Alcina di una realtà artificiale come un film in 3D fatto con il computer. Esattamente come nel pop trionfano le voci falsettate di star dall’identità sessuale incerta (del resto, Mormile cita più di un caso di controtenori provenienti - o convertitisi - alla musica leggera). Anche se a teatro andavano a sentire Cavalleria rusticana e non L’incoronazione di Poppea, avevano ragione i nonni: sotto il sole non c’è davvero nulla di nuovo.