Donato Carrisi, Vanity Fair n.39, 6/10/2010, 6 ottobre 2010
24.36.48
Gli investigatori le chiamano «finestre utili». Sono intervalli temporali che scandiscono i casi di scomparsa. Nessuno parla di questi numeri, ma tutti li conoscono. Gli addetti ai lavori – giornalisti di nera o poliziotti – sanno che spesso le cose vanno così. Non è una scienza esatta questa cabala del mistero, ma le storie si somigliano tutte.
La persona sparisce, nessuno sa niente, nessuno ha visto niente. E allora si inizia a contare.
Un allontanamento volontario spesso dura al massimo ventiquattr’ore. «Mai provato a stare per un’intera giornata senza usare il telefonino?», mi domanda Claudio (il nome è di fantasia), il mio amico poliziotto che da dieci anni si occupa di casi di scomparsa. «Gli adolescenti inviano in media una sessantina di sms al giorno, quando scappano di casa non riescono a resistere troppo tempo senza contattare l’amico o l’amica del cuore. E allora noi li becchiamo».
In caso di rapimento, le ore diventano 36. «Ci vuole un giorno e mezzo perché svaniscano le tracce che i rapitori lasciano inevitabilmente dietro di loro. Da quel punto è tutto più difficile: man mano che trascorrono le ore, ogni pista si dirada sotto i nostri occhi».
Due giorni è il margine massimo per risolvere efficacemente un omicidio. «Dopo le prime 48 ore, un corpo ormai è occultato e la maggior parte delle prove è cancellata o compromessa in maniera irreversibile. Se non si sono fatti avanti testimoni, è arduo che possano farlo in seguito. E l’assassino ha avuto tutto il tempo per acquisire una certa sicurezza, per formarsi una versione dei fatti da difendere sotto interrogatorio e allora, anche se lo mettiamo sotto torchio, è difficile che crolli e confessi».
24.36.48. I numeri di questa triste lotteria. Oltre queste soglie, il buio. Ma nessuno lo nomina mai. Nessuno vuole uccidere la speranza.
Claudio è un poliziotto atipico. Ne è consapevole. Chi si occupa di persone scomparse non sa mai con cosa ha a che fare. Se con una fuga, un incidente o un reato.
«Se lavori per la squadra omicidi, allora dai la caccia agli assassini. Sei motivato dalla voglia di fare giustizia. Ma qui non sai neanche se quella che stai cercando è una vittima… E allora impari a mentire».
Quelle di cui parla, in realtà, non sono bugie. Sono solo compromessi. Con se stessi, perché all’inizio è come sbattere la testa contro un muro di silenzio. E poi con i parenti dello scomparso, a cui bisogna raccontare una realtà distorta. Perché se si pesca nell’esperienza, allora la risposta sarebbe «preparatevi al peggio».
Ho conosciuto Claudio mentre scrivevo una fiction ed è stato utile durante la stesura del mio primo romanzo, Il suggeritore. È un ragazzone timido, abbiamo la stessa età ma lui sembra più vecchio. Prendiamo un caffè seduti ai tavolini di un bar a Campo de’ Fiori. Nella sua voce c’è sempre un accento di rabbia, parla stringendo i pugni. I suoi occhi vagano da un punto all’altro della piazza, come se aspettasse qualcuno. All’inizio non l’avevo capito, pensavo fosse una specie di tic nervoso.
«La mia fidanzata mi ha mollato per questo, quando uscivamo diceva che non la guardavo mai negli occhi. Aveva ragione».
Perché Claudio cerca sempre un viso, un tratto che somigli a una foto segnaletica.
Il suo non è un lavoro senza successi, tanti li riporta a casa. Ma c’è sempre il caso irrisolto. E allora le domande iniziano a non darti tregua. Il rischio è che il dubbio si tramuti in ossessione.
Il suo ufficio in Questura lo chiamano il Limbo. In quel luogo, il tempo si ferma. Le vite rimangono come in sospeso. Le persone scomparse non invecchiano, non cambiano mai. Rimangono sempre identiche a una foto segnaletica. E non muoiono.
«Ed è questa la cosa peggiore. I morti non ti perseguitano. Indipendentemente da come sono morti, alla fine puoi lasciarli andare in pace. E quella pace puoi darla anche a chi gli voleva bene».
Al secondo caffè, è inevitabile parlare del caso del momento, quello che sta tenendo tutti in ansia: Sara Scazzi, o Sarah con l’h finale, come lo scriveva lei. Claudio non se ne sta occupando, ma mi spiega che proprio in quella consonante muta, come il silenzio che l’ha ingoiata, sta la sintesi migliore di questa storia. Così come ha fatto col suo nome, Sara ha creato un’appendice alla propria vita. Quell’aggiunta si trova su Facebook, dove la ragazza aveva tre profili pur non possedendo un computer. A gestirli erano altri. Ma c’è chi l’ha vista in biblioteca, seduta a lungo davanti a un pc.
Non si sparisce mai di colpo, ma è come una foto che col tempo sbiadisce. Inizia tutto molto prima. Anzi, più appari in certi luoghi come la Rete, più velocemente inizi a sparire. Per questo le metodologie di indagine sono mutate: «In passato si batteva subito il territorio, adesso il primo posto in cui si guarda è Internet».
È il luogo più sicuro in cui avvicinare una ragazzina come Sara. Chi ha cattive intenzioni è protetto dallo scudo dell’anonimato. E può diventare mille persone diverse.
Per questo, in casi di scomparsa simili, i primi sospetti investono gli amici internauti. Poi vengono la famiglia e i conoscenti. Solo dopo si pensa agli estranei.
«Si calcola che il 10% dei profili su Facebook sia falso. Per non parlare delle informazioni non vere che i frequentatori danno di sé. Si comincia col mentire sull’età, poi si passa a bugie sempre più articolate».
Anche Sara fingeva di essere qualcun’altra?
Quell’h alla fine del nome era come uno slancio, un modo per uscire dal grigiore di uno sconosciuto paesino di provincia, la muta dichiarazione di sentirsi diversa.
Qualcuno può averla assecondata in questo sogno?
«Il mostro che si aggira su Internet di rado è un completo sconosciuto. A volte è qualcuno che già conosciamo: finge di essere qualcun altro solo per avvicinarci. O magari è qualcuno che ci osserva da tanto tempo, senza che noi lo sappiamo. Alimenta le sue fantasie tenendosi a debita distanza. Quando poi lo facciamo entrare nella nostra vita, lui ha già un piano».
Internet è pieno di gente morta, ma che continua a vivere sui Social Network, nelle banche dati. È impossibile cancellare tutto. Chi è abile si impadronisce di queste identità inutilizzate per commettere reati.
«Ma la colpa è nostra. Facebook, per esempio, è la più grande violazione della privacy dell’era moderna. E l’ironia è che siamo noi ad attuarla, riversandoci dentro tutto il nostro mondo, la nostra esistenza».
Le nuove generazioni sono quelle più a rischio. E Claudio mi fa capire che, anche se noi due abbiamo solo trentasette anni, siamo già vecchissimi sotto il profilo informatico. I giovani sono maggiormente padroni del mezzo e sono anche più coinvolti. Mi cita un saggio di Edward Castronova sui giochi di ruolo come Second Life, in cui, attraverso un avatar, puoi essere chiunque. In questi universi sintetici si consumano anche reati. C’è chi uccide, chi stupra. La pulsione è sempre la stessa, ma alla fine è l’avatar a pagare. Per molti quella virtuale è una palestra per superare certi freni inibitori: «Il ragazzino che passa le sue giornate giocando con questa roba crescendo potrebbe esportare il comportamento criminoso nella vita reale».
Noi riusciamo ancora a distinguere e, una volta spento il computer, torniamo a condurre una vita normale, con gli amici, la famiglia o la fidanzata. I giovani non colgono la differenza. Passano ore e ore su Internet e alla fine pensano che il mondo reale sia solo un posto in cui si mangia e si dorme, ma che la vita vera si svolga nell’universo sintetico.
«I genitori non se ne accorgono, non sospettano neanche questa esistenza parallela dei figli».
Mi viene in mente una delle prime definizioni del World Wide Web: «Internet è una finestra aperta sul mondo». Ma col tempo è diventata anche una pericolosa finestra sulla nostra vita. Da lì, chiunque ci può guardare. E da quel buco nero può entrare di tutto.
Claudio si alza di scatto: «Vieni, voglio mostrarti una cosa».
Percorriamo un breve tragitto, fermandoci fra piazza delle Cinque Lune e corso Rinascimento. Non mi ci vuole molto a riconoscere i luoghi e a capire perché il mio amico mi abbia portato lì.
«È qui che l’hanno vista l’ultima volta».
Emanuela Orlandi aveva quasi sedici anni. Era il pomeriggio del 22 giugno del 1983. Claudio mi mostra il punto esatto in cui si trovava Emanuela prima di sparire, secondo la testimonianza della sua amica Raffaella.
«È qui che ha compiuto il primo passo nel buio…».
Avviene senza che ce ne accorgiamo. Superiamo quel confine senza saperlo e, da lì in poi, nessuno saprà più nulla di noi. È così che è accaduto anche a Sara Scazzi? Un breve tragitto fra casa sua e quella della cugina, con lo zainetto sulle spalle, pronta per andare al mare. Con l’iPod nelle orecchie, che forse le ha impedito di accorgersi di ciò che le stava accadendo intorno. Non ha notato la voragine che intanto si apriva sotto i suoi piedi, pronta a inghiottirla. Non ha visto le ombre che le tendevano agguati, allungandosi minacciosamente verso di lei in pieno giorno.
«Perché queste cose avvengono sempre alla luce del sole».
La rabbia di Claudio adesso sembra rassegnazione.
«238876». Ancora numeri, ma stavolta sono le ore trascorse da quando Emanuela Orlandi è sparita. Lì c’è la misura di tutta la vita che le è stata tolta. E allora mi accorgo che Claudio non è solo un poliziotto che cerca le persone scomparse. Lui per loro custodisce il tempo.