Francesco Castelli, L’Osservatore Romano 29/9/2010, 29 settembre 2010
E IL CONFESSORE DI CAVOUR CHIESE CLEMENZA A LEONE XIII
Il confessore di Cavour frate Giacomo da Poirino alla fine chiese perdono. È quanto emerge dalla supplica inedita firmata nel 1882 dal religioso, francescano riformato, al secolo Luigi Marocco, che invocava la clemenza di Leone XIII per il comportamento tenuto nel 1861 e per il quale era stato sospeso a divinis.
Gli antefatti sono noti. Alla fine del maggio 1861, colto da un malore improvviso, il conte Camillo Benso di Cavour si ritrovò in fin di vita. A un passo dalla morte, il 5 giugno, fu chiamato al suo capezzale fra Giacomo, rettore della parrocchia della Madonna degli Angeli a Torino, vicina alla casa dei Cavour, per l’amministrazione dei sacramenti. C’erano, però, dei problemi.
Il conte era irretito dalla scomunica con la quale, il 26 marzo 1860, Pio IX aveva colpito quanti avevano cooperato all’invasione dello Stato Pontificio. Secondo la bolla papale, per essere autenticamente assolto in punto di morte e sciolto dalle conseguenze della sanzione che rendeva nulla la ricezione dei sacramenti, ogni penitente doveva compiere una pubblica ritrattazione dei gravi atti compiuti contro la Chiesa. Solo allora la confessione sarebbe stata valida e l’assoluzione efficace.
Dinanzi al morente, però, fra Giacomo non si attenne alle norme pontificie. Anziché chiedere la ritrattazione, decise di procedere subito con la confessione, impartendo l’assoluzione e amministrando, per il tramite di un suo vicecurato, il sacramento dell’Eucarestia. All’indomani, 6 giugno 1861, il conte morì.
La notizia dell’assoluzione di Cavour in punto di morte provocò subito clamore. Molti erano interessati alle ultime ore dell’uomo di Stato e si chiedevano se, alla fine, il conte avesse ritrattato. Voci non confermate lo sostenevano, altre lo smentivano risolutamente. Quando la vicenda era sul punto di far scoppiare una polemica, l’intervento di Gustavo Benso, fratello di Camillo, pose fine alle discussioni: la ritrattazione non c’era stata.
Giunse eco dell’accaduto anche a Pio IX che, per vederci chiaro, convocò a Roma fra Giacomo. Dalla bocca del religioso il Pontefice dovette constatare che né il conte aveva fatto alcuna dichiarazione, né il frate l’aveva richiesta. Pio IX apprese la notizia con un vivo disappunto: la normativa sacramentale era stata disattesa con tutte le conseguenze, pastorali e non solo, che un simile fatto, ormai così noto, poteva provocare. Papa Mastai invitò, pertanto, il francescano a riparare al suo errore riconoscendo, con una dichiarazione scritta, di non aver rispettato le norme emanate l’anno precedente.
Alla richiesta del Pontefice, che interpose i buoni uffici di altri ecclesiastici per vincere le resistenze di fra Giacomo, il religioso si oppose dicendo di aver compiuto il proprio dovere. Preso atto della sua irriducibile volontà, Pio IX decise di sospenderlo a divinis.
La sanzione di Pio IX, dunque, non fu tesa a colpire un frate che aveva assolto Cavour. Era stato piuttosto il rifiuto di fra Giacomo di riconoscere il suo grave errore a spingere Pio IX verso quel provvedimento. Lo si evince chiaramente dal tenore della lettera scritta l’8 agosto 1861 dallo stesso Pontefice all’arcivescovo di Torino Luigi Franzoni.
La sanzione a carico di fra Giacomo non va pertanto intesa né come persecuzione né come una punizione comminata sic et simpliciter per l’assoluzione impartita a Cavour. Chi scorre il carteggio tra Pio IX e Vittorio Emanuele II può d’altra parte vedere facilmente - come ha osservato Giovanni Spadolini - che al Papa stava profondamente a cuore l’anima di ogni cattolico e che, prima di essere sovrano dello Stato Pontificio, egli si sentiva dal più profondo pastore e padre dei suoi figli nella Chiesa. Che un uomo si pentisse e si confessasse, chiunque egli fosse e qualsivoglia atto avesse compiuto, era per Pio IX la principale premura.
Quanto a fra Giacomo, nella sua supplica - che qui viene pubblicata per la prima volta - il religioso riconosceva ora che Pio IX "giustamente" lo aveva punito con la "meritata pena": e perciò, ora contrito, esprimeva il desiderio di non "morire così", senza essere riammesso al ministero sacerdotale. "La Santità Vostra, per pura bontà sua, ascolti la calda preghiera di perdono che fa a Vostra Santità un povero vecchio afflitto e pentito", diceva fra Giacomo. E concludeva: "Oh! Quale consolazione proverebbe [il supplicante] quando la Santità Vostra credesse di favorirlo di perdono colla concessione di amministrare i SSmi Sacramenti, come qualsiasi altro sacerdote!".
La riammissione, come apprendiamo da una relazione scritta dallo stesso interessato, fu concessa nei primi mesi del 1884, circa un anno prima della morte del francescano. Si concludeva così, con una riconciliazione, la vicenda terrena del confessore di Cavour.