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 2010  ottobre 01 Venerdì calendario

La storia dei manuali scolastici ce lo ha spesso disegnato come un monarca ruvido e un po’ grossolano, diviso fra l’amore per la caccia e quello per le donne, quasi un baffuto fantoccio nelle mani di quel burattinaio lungimirante chiamato Camillo Benso conte di Cavour

La storia dei manuali scolastici ce lo ha spesso disegnato come un monarca ruvido e un po’ grossolano, diviso fra l’amore per la caccia e quello per le donne, quasi un baffuto fantoccio nelle mani di quel burattinaio lungimirante chiamato Camillo Benso conte di Cavour. E ce lo ricordiamo, ritratto a cavallo con il cipiglio un po’ ribaldo, mentre il povero Garibaldi gli «gira» come un assegno la mezza Italia conquistata dai Mille dicendogli «Obbedisco». Vittorio Emanuele II è, ovviamente, molto più di questa «figurina»: è il re coraggioso in battaglia e acuto in politica che sigilla l’unità d’un Paese diventando «padre della patria», ma è anche il padre d’una famiglia di nove figli (legittimi) verso i quali rivolge tenerezze inusuali per quei tempi duri fino a singhiozzare donando a Maria Clotilde quindicenne un medaglione appartenuto alla madre morta; è il marito che, nonostante la sua bulimia di «tombeur de femmes», è così affettuoso con la moglie Maria Adelaide da meritarsi l’appellativo di «mon ange»; è l’uomo triste che, nella sua ultima stagione, vive al Quirinale rimpiangendo costantemente le proprie radici lontane, al punto da stabilire per testamento che le lenzuola del suo letto di morte vengano portate a Torino. Attorno a quest’icona della nostra storia ruota la grande mostra «Vittorio Emanuele II: il re Galantuomo e il suo tempo» che aprirà domani in due luoghi-simbolo, il Palazzo Reale di Torino e il Castello di Racconigi. Una rassegna voluta da Ministero per i Beni Culturali, Fondazione Dnart, Comune e Regione Piemonte e che, come osserva la coordinatrice, Elena Fontanella, coadiuvata in quest’impegno dai direttori delle due dimore sabaude, Daniela Biancolini e Renato Balestrini, «si sviluppa su vari piani di lettura», raccontando il contesto storico-sociale di quegli anni cruciali per l’Unità e intrecciando virtù e vizi, pubblici e privati, del sovrano. Racconigi è il luogo della nascita, specchio d’una adolescenza trascorsa più tirando di scherma che alla scrivania. Tanto che il precettore del principino annota: «Agli esami non ha risposto nulla». E, così, Carlo Alberto convoca il rampollo di fronte a un notaio perché sottoscriva un impegno «di maggior applicazione». Palazzo Reale è il palcoscenico della vita adulta e matura. Qui sono esposti, tra i tanti, documenti come lo Statuto Albertino (portato sotto scorta dall’Archivio di Stato e assicurato per 2 milioni di euro), il testo del celeberrimo «grido di dolore», il verbale dell’incoronazione a Re d’Italia. Fughe di sale e saloni di straordinaria bellezza nei quali, tra un paio di settimane, splenderanno anche quattro quadri di Hayez - tra cui Il bacio - accanto a un ritratto dello stesso Vittorio, giovane e con una capigliatura rossiccia che innescò scintille di gossip in una corrispondenza tra Cavour e D’Azeglio quando, parecchi anni più tardi, accompagnarono il re ormai vedovo alle corti di Francia e Inghilterra. Prima di partire lui acconsentì a tagliarsi di 10 centimetri i baffi a manubrio tinti in nero come i capelli - la forza dell’immagine, specie quella di chi fa vita pubblica, non è una scoperta degli anni Duemila -, ma la regina Vittoria, pur apprezzando la «simpatia» dell’ospite, restò ugualmente sorpresa da questi mustacchi così poco british. E Vittorio rimase altrettanto sorpreso nel vedere la principessa Mary che volevano dargli in sposa: «Troppo profumata» tagliò corto. La mostra è un caleidoscopio di meraviglie, con qualche accattivante spiata dal buco della serratura della storia: troni e collezioni e tavole imbandite come quella per sedici commensali con un servizio di posate d’argento di 132 pezzi proprietà del Quirinale, diorami di battaglie, pezzi del museo d’Artiglieria di Torino, il primo reportage fotografico della storia realizzato nella guerra in Crimea, lettere di potenti e di umili, un «coro» di quaranta manichini con abiti disegnati da Caramba e sottofondo del Va’ pensiero, la divisa del re e quella di Garibaldi, la bomba lanciata da Felice Orsini contro Napoleone III, ma anche i calchi in gesso con cui la contessa di Castiglione gratificava gli amanti: riproducono le sue mani, i suoi piedi e i suoi seni. Immagini d’una bellezza che in certi casi si rivelò più potente della diplomazia. E che l’Italia unita, sommessamente, ringrazia.