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 2010  settembre 29 Mercoledì calendario

DA PRODI A BERLUSCONI L’INSTABILITÀ POLITICA LASCIA IL PAESE FERMO

La vita politica italiana è una sfida perfino per i numeri. Li smentisce, li corregge, li interpreta. E alla fine due senatori di scarto valgono come e quanto cento deputati di differenza. Gli ultimi due Governi dimostrano plasticamente che la matematica nel Parlamento italiano è in assoluto un’opinione. E che la mitica "gabina" elettorale tanto evocata da un Senatur ai suoi esordi non risolve per sempre ma è un attimo, un punto di partenza dagli approdi imprevedibili.

Due punti di partenza assai diversi ci furuno, appunto, con Romano Prodi e poi con Silvio Berlusconi: una diversità scritta in quei due numeri, due senatori di scarto per il Professore, cento deputati in più per il Cavaliere. Eppure a metà del cammino della legislatura anche Silvio Berlusconi fa i conti con una maggioranza che non trova ma che deve cercare. Come faceva Prodi con Turigliatto, Pallaro e i mitici sette senatori a vita, ora si adatta a fare il premier cercando Tanoni piuttosto che Mannino.

Dell’instabilità politica ognuno ha le sue teorie. Quella più semplice parla di tradimenti, quella più elaborata mette in discussione il bipolarismo mentre un’altra ancora accusa il bipartitismo coatto, quella nascita a freddo di Pd e Pdl da cui – si prevede – si staccheranno di qua e di là alcuni pezzi per dare vita a una scomposizione e ricomposizione dei poli. Ciascuno ha le sue preferenze e i suoi progetti bipolari o tripolari ma intanto le lancette battono a vuoto e fermano il tempo delle decisioni.

L’immobilità politica si legge in alcuni dati: il moloch della spesa pubblica corrente che resta intatta, anzi è cresciuta; una produttività che perde colpi scendendo del 2,1 (2008-2010) e perde, soprattutto, il confronto con gli altri mercati; un livello di investimenti esteri che è il più basso d’Europa; condizioni di competitività minime ma che diventano impraticabili nel Mezzogiorno dove si sommano i difetti della burocrazia ai rischi della illegalità. Questo è il segno meno che lega insieme i due ultimi governi, entrambi ballerini sui numeri, entrambi inadempienti sulle riforme.

Liberalizzazioni rimaste tra i puntini di sospensione, il cuneo fiscale e contributivo appena sforbiciato, una legge sulle pensioni che smonta quella precedente (Damiano versus Maroni) ma tante fibrillazioni per i Dico con la minaccia di Clemente Mastella (allora ministro della Giustizia) che promette le dimissioni in caso di voto di fiducia sulla regolamentazione delle coppie di fatto. Fino alla bocciatura del Governo Prodi sulla politica estera nel febbraio del 2007 provocata dai dissidenti di sinistra di Rifondazione. Sull’Afghanistan si arriva allo strappo ma l’amalgama non riuscita – questa volta dell’Unione – si scarica soprattutto sull’economia. «Anche i ricchi piangano»: lo slogan scelto da Rifondazione segnò il percorso della prima Finanziaria di Prodi mentre l’asse Fassino-Rutelli cercava di ri-bilanciare sulle politiche riformiste.

Il "ricatto" dei numeri non lascia spazio alle mediazioni nè a un progetto di riforma condiviso. Anche le liberalizzazioni diventano uno strumento di lotta politica all’interno della stessa maggioranza. Le tasse «bellissime» e i «bamboccioni» di Tommaso Padoa Schioppa danno fiato ad altre polemiche sempre vissute in quella logica di duello tra il centro e la sinistra. Fibrillazioni che anche allora vennero lette in chiave di schemi "elettorali". Parte infatti la discussione sulla nuova legge elettorale: riforma tedesca contro spagnola o francese. Di lì a poco la crisi di Governo che passò sempre per la via giudiziaria.

Allora ci furono le vicende di Clemente Mastella e sua moglie, ma pure questa volta è la bufera sulla famiglia di Gianfranco Fini che si scarica in Parlamento e sulla stabilità politica. La famiglia come esito finale – in tutte e due i casi – di una maggioranza che non sa coalizzarsi su una riforma. Per esempio quella fiscale, scritta nel programma di centro-destra, annunciata anche un anno fa nella prospettiva di tre anni di legislatura "pacifica" ma uscita dall’ordine del giorno. E poi un Ddl sul lavoro che è alla sesta lettura alle Camere, ammortizzatori sociali che andrebbero riformati e che vengono applicati solo in deroga.

C’è il federalismo fiscale in rampa di lancio ma pure su questo progetto rischiano di confluire le tensioni dentro la maggioranza tra un Pdl tirato dalla Lega e i "finiani" o l’Mpa di Lombardo più vicini alle sensibilità del Sud. La probabilità delle elezioni anticipate, anzi, trasforma la riforma federale in argomento da campagna elettorale etichettando come "nordiste" o "sudiste" le forze che si schierano in campo. Il dilemma Nord-Sud è di questo Governo come la querelle tra sinistra e riformisti divideva il Governo Prodi.

Il precedente Governo si riuniva in conclave a Caserta, stilava un documento in dieci punti su cui tutti sembravano d’accordo ma poi si litigava sulla fase due delle liberalizzazioni o per gli interventi sulle aliquote fiscali e sui salari. Oggi la maggioranza di centro-destra cerca l’unità su un documento in cinque punti con un voto di fiducia che forse ricompatta ma che nasconde le tensioni sulla giustizia, sul federalismo e le spaccature sulle liberalizzazioni delle municipalizzate o l’abolizione delle province bloccate dalla Lega ma chieste dai "finiani".

Intanto i fatti accadono. E se una volta era la politica a dare lo shock – come fu con le mega-manovre di Giuliano Amato o Carlo Azeglio Ciampi – adesso tocca a un’impresa dare la sveglia. Lo shock di questi mesi si chiama Pomigliano d’Arco, la minaccia della più grande impresa italiana di andarsene in Polonia ha creato un’eco nel vuoto delle decisioni, perfino in assenza di un ministro dello Sviluppo economico e con un’opposizione divisa sulla strada da prendere.

Le parole di Sergio Marchionne, ad della Fiat, scattano la fotografia di oggi: «L’Italia paga la somma delle non-scelte del passato: la mancanza di condizioni minime di competitività; il più basso livello di investimenti a livello europeo; il numero crescente di imprese che chiude o abbandona l’Italia».