Martin Wolf, Il Sole 24 Ore 29/9/2010, 29 settembre 2010
E ORA TORNIAMO TUTTI AL PLAZA A FIRMARE LA PAX MONETARIA
«Siamo nel pieno di una guerra valutaria internazionale, un generale indebolimento delle maggiori monete. Per noi questo rappresenta un pericolo, perché ci rende meno competitivi». La lamentela di Guido Mantega, il ministro dell’Economia brasiliano, è assolutamente comprensibile. In una fase di domanda debole, i paesi che possiedono valute di riserva adottano politiche di espansione monetaria, e gli altri reagiscono con interventi sul tasso di cambio. Quei paesi, come il Brasile, che non appartengono alla prima categoria e preferiscono non imitare la seconda, si ritrovano con la valuta alle stelle; e hanno paura delle conseguenze.
Non è la prima volta che assistiamo a conflitti valutari di questo genere. Nel settembre del 1985, ormai 25 anni fa, i governi di Francia, Germania, Giappone, Stati Uniti e Gran Bretagna si riunirono all’hotel Plaza di New York e si accordarono per favorire il deprezzamento del dollaro. Prima ancora, nell’agosto del 1971, il presidente americano Richard Nixon impose il Nixon shock, con l’introduzione di una sovrattassa del 10% sulle importazioni e la fine della convertibilità del dollaro in oro, due eventi che riflettevano il desiderio americano di un dollaro più debole. Desiderio che emerge anche oggi.
Ma questa volta è diverso: al centro del problema non c’è un alleato compiacente, com’era allora il Giappone, ma la prossima superpotenza mondiale, la Cina. Quando si scontrano due elefanti del genere, per gli altri c’è il forte rischio di finire calpestati.
Sono tre gli elementi significativi delle odierne guerre valutarie. Il primo è che il mondo sviluppato, a seguito della crisi, è affetto da una cronica carenza di domanda. In nessuna delle sei maggiori economie ad alto reddito (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia) il Pil nel secondo trimestre di quest’anno è tornato ai livelli a cui era arrivato nel primo trimestre del 2008. Queste economie stanno marciando a livelli anche del 10% inferiori rispetto ai trend precedenti. Un indicatore dell’eccesso di offerta è il calo dell’inflazione primaria negli Stati Uniti e nella zona euro a livelli prossimi all’1%: si profila la deflazione. Questi paesi puntano sulle esportazioni per spingere la crescita, sia nel caso di quei paesi con un disavanzo commerciale (come gli Stati Uniti) sia nel caso di quelli in attivo nel saldo con l’estero (come Germania e Giappone). Ma, complessivamente, uno scenario del genere potrebbe concretizzarsi solo se le economie emergenti virassero verso un passivo nel saldo delle partite correnti.
Il secondo elemento, in effetti, è che il settore privato lavora proprio in questa direzione. Secondo l’Institute for international finance di Washington, quest’anno il flusso netto di finanziamenti privati verso i paesi emergenti sarà di 746 miliardi di dollari, parzialmente compensato da un flusso in uscita dal settore privato di questi paesi di 566 miliardi.
Nonostante tutto, considerando anche il surplus delle partite correnti di 320 miliardi di dollari e i modesti flussi di capitali pubblici in entrata, il saldo della bilancia dei pagamenti dei paesi emergenti, senza l’intervento dello stato, sarebbe un surplus di 535 miliardi di dollari. Ma questo sarebbe impossibile: le partite correnti devono pareggiare il flusso netto di capitali. In assenza dell’intervento dello stato, l’aggiustamento avverrebbe attraverso un aumento del tasso di cambio. Alla fine, i paesi emergenti presenterebbero una situazione di disavanzo delle partite correnti finanziato tramite un afflusso netto di capitale privato dai paesi ad alto reddito. Anzi, è proprio quello che ci si aspetterebbe di vedere.
Il terzo è che l’aggiustamento naturale continua a essere ostacolato dall’accumulo di riserve di valuta estera. Queste somme rappresentano un deflusso di capitali pubblici. Tra il gennaio ’99 e il luglio 2008, le riserve degli stati a livello mondiale sono cresciute da 1.615 a 7.534 miliardi di dollari (un incremento sbalorditivo di 5.918 miliardi). Alla base di questo enorme incremento c’è la volontà, dopo crisi passate, di dotarsi di una sorta di autoassicurazione. E le riserve in effetti sono state utilizzate nel corso di questa crisi, tanto che tra il luglio del 2008 e il febbraio del 2009 si sono ridotte di 472 miliardi. Tutto questo è stato indiscutibilmente utile per quei paesi che non hanno valute di riserva, perché li ha messi nelle condizioni di attutire l’impatto. Ma l’impiego delle riserve equivale ad appena il 6% del livello di prima della crisi. Inoltre, tra febbraio 2009 e maggio 2010 le riserve sono cresciute di altri 1.324 miliardi, arrivando quasi a 8.385 miliardi. Il mercantilismo trionfa!
La Cina è di gran lunga lo stato che interviene di più: da febbraio 2009 Pechino pesa per il 40% nell’accumulo di riserve. A giugno 2010 le riserve cinesi hanno toccato quota 2.450 miliardi di dollari, il 30% del totale mondiale, una somma corrispondente - incredibilmente - alla metà del suo stesso Pil. Questo accumulo di riserve va considerato come un colossale sussidio alle esportazioni.
Mai, nella storia umana, il governo di una superpotenza ha prestato così tanto denaro al governo di un’altra superpotenza. Qualcuno (ad esempio Komal Sri-Kumar, della Trust Company of the West, sul Financial Times di settimana scorsa scorsa) sostiene che questa gestione del tasso di cambio non equivale a manipolazione del medesimo, contrariamente alle opinioni diffuse nel Congresso americano, perché l’aggiustamento può avvenire attraverso «variazioni dei costi e dei prezzi a livello nazionale». Una tesi del genere risulterebbe più convincente se la Cina non si fosse impegnata a fondo e con successo per reprimere le naturali conseguenze monetarie, e dunque inflazionistiche, dei suoi interventi. Contemporaneamente, l’inevitabile aggiustamento in direzione di un disavanzo del saldo con l’estero nei paesi emergenti viene scaricato su quei paesi che attirano flussi di capitale in ingresso e non vogliono o non possono intervenire sui mercati valutari nella misura necessaria. Povero Brasile! Chissà che non possa addirittura essere il colpo d’avvio per la prossima crisi finanziaria dei mercati emergenti.
In assenza di aggiustamenti valutari stiamo assistendo a una forma di guerra monetaria: gli Usa cercano di inflazionare la Cina e la Cina cerca di deflazionare gli Usa. Gli uni e gli altri sono convinti di avere ragione, nessuno dei due riesce a fare quello che vorrebbe e il resto del mondo paga le conseguenze.
Il punto di vista della Cina è facilmente comprensibile: Pechino vuole a tutti i costi evitare di fare la fine del Giappone dopo l’accordo del Plaza. Con l’export reso meno competitivo dal forte aumento della valuta e di fronte alle pressioni americane per ridurre il surplus delle partite correnti, il Giappone, invece d’imboccare la strada delle riforme strutturali necessarie, optò per una colossale politica d’espansione monetaria. La bolla speculativa che ne seguì ha contribuito a dare origine al "decennio perduto" degli anni 90. Da dominatore della scena economica mondiale, il Giappone è precipitato nella stagnazione. Per la Cina, naturalmente, un esito di questo tipo rappresenterebbe una catastrofe. Al tempo stesso, però, è difficile immaginare una configurazione solida dell’economia mondiale senza consistenti flussi di capitale dai paesi ad alto reddito agli altri. Ma è altrettanto difficile se l’economia emergente più grande e brillante del mondo è anche la prima esportatrice netta di capitali.
Quello che serve è un percorso che conduca a questi indispensabili aggiustamenti globali. Per arrivarci servirà non soltanto una volontà collaborativa che al momento sembra tragicamente latitare, ma anche una maggiore inventiva sulle riforme da introdurre a livello nazionale e internazionale. Mi piacerebbe essere ottimista. Ma non lo sono: un mondo in cui ogni paese bada a scaricare sugli altri il peso della crisi difficilmente può andare incontro a un lieto fine.