federico rampini, la Repubblica 29/9/2010, 29 settembre 2010
E L´AMERICA FRAGILE SI RISCOPRE PROTEZIONISTA - È
la tassa contro le delocalizzazioni, l´ultima misura che il Congresso a maggioranza democratica vuole riuscire ad approvare. Un castigo fiscale alle multinazionali che trasferiscono posti di lavoro all´estero; e un premio a quelle che fanno la scelta contraria, riportando in America attività che erano finite altrove.
Una legge clamorosa, che può segnare una battuta d´arresto della globalizzazione: per decenni proprio il capitalismo americano ha tirato la volata alle delocalizzazioni, e le multinazionali hanno rimpinguato i propri profitti spostando le produzioni nelle aree a minor costo della manodopera, soprattutto in Asia. Ieri questa legge non è passata per un soffio. Pur di non votare assieme al partito di Obama, l´opposizione repubblicana ha fatto ostruzionismo. Al Senato occorrono i due terzi dei voti per superare il veto della minoranza, e i democratici hanno avuto solo 53 invece dei 60 voti necessari. Ma i promotori della legge anti-delocalizzazioni promettono di tornare alla carica. Il loro obiettivo: far passare quella misura a metà novembre, in quel periodo che si chiama "la sessione dell´anatra zoppa": perché segue le elezioni legislative, ma riunisce ancora il vecchio Congresso. Dunque in caso di sconfitta (probabile), per i democratici la sessione di fine anno è quella in cui non avranno più nulla da perdere. Il disegno di legge anti-delocalizzazioni contiene tre parti. La prima cancella la deducibilità fiscale delle spese di produzione, se i salari vengono pagati all´estero: è dunque di fatto l´equivalente di un aumento d´imposta sulle filiali estere. La seconda parte è una vera e propria tassa addizionale su ogni merce reimportata dall´estero, se in precedenza lo stesso bene veniva prodotto negli Stati Uniti. Il terzo componente, ovvero "la carota", è un´esenzione biennale dall´imposta sui salari, per ogni attività che le multinazionali ri-trasferiscono sul territorio americano.
La legge anti-delocalizzazioni è l´ultimo segnale di una crescente voglia di protezionismo. Lo stesso Congresso di Washington presto discuterà le misure di ritorsione contro la Cina, per punire Pechino della mancata rivalutazione della sua moneta (renminbi o yuan). Su quei dazi contro il made in China potrebbero convergere i voti democratici e repubblicani: il tema è popolare e può portar voti alle legislative. Nell´attesa della resa dei conti fra Stati Uniti e Cina, alcune delle maggiori potenze economiche giocano a indebolire la propria moneta. Il ministro delle Finanze brasiliano, Guido Mantega, ha denunciato una vera e propria "guerra delle valute". Visto che la Cina mantiene una parità di cambio artificialmente debole per aiutare le proprie esportazioni, Usa e Giappone rispondono con le proprie svalutazioni.
La voglia di protezionismo in America è alimentata dalle notizie negative che continuano ad arrivare dall´economia reale. Tassare le multinazionali che delocalizzano è un´idea popolare, in una fase in cui non si vedono schiarite sul mercato del lavoro. Ieri l´indagine periodica della Business Roundtable tra i chief executive delle maggiori imprese Usa ha dato risultati paradossali. L´indice riassuntivo delle risposte è peggiorato nettamente (è sceso da 94,6 in giugno a 86 nel mese di settembre), spezzando una serie positiva di quattro trimestri. Solo il 31% dei capi azienda interrogati prevede di assumere nuovi dipendenti negli Stati Uniti nei prossimi sei mesi. Per contro, il 66% si attende un miglioramento nei profitti. E´ lo specchio di una situazione che spinge al rialzo Wall Street: il mercato del lavoro è comatoso ma i bilanci delle grandi imprese hanno ritrovato una buona salute. La spiegazione sta proprio nel fatto che le aziende hanno fatto progressi di efficienza grazie ai licenziamenti massicci durante la recessione. E se assumono, lo fanno in Asia, dove gli investimenti delle multinazionali Usa contribuiscono all´occupazione locale.