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 2010  settembre 29 Mercoledì calendario

Datemi uno “Hubble” e cambierò l’Universo - Quando la navetta spaziale si mise in pancia il telescopio «Hubble» e poi partì a razzo da Cape Canaveral per collocarlo in orbita, l’Universo ci appariva tutto diverso da come lo conosciamo ora

Datemi uno “Hubble” e cambierò l’Universo - Quando la navetta spaziale si mise in pancia il telescopio «Hubble» e poi partì a razzo da Cape Canaveral per collocarlo in orbita, l’Universo ci appariva tutto diverso da come lo conosciamo ora. Stiamo parlando di appena 20 anni fa, ma nel 1990 gli astronomi credevano che il cosmo stesse rallentando l’espansione anziché accelerarla, non avevano mai rilevato la materia oscura né l’energia oscura, e non avevano neanche mai visto un pianeta al di fuori del sistema solare, per cui discettavano di vita su altri corpi celesti senza avere la prova diretta che ne esistessero. Ma dal 1990 a oggi l’Universo si è trasfigurato e il merito è soprattutto delle fotografie scattate da «Hubble» a 600 chilometri di quota, ben al di fuori dell’atmosfera, cioè da quella massa di gas che assorbe buona parte delle radiazioni elettromagnetiche in arrivo dallo spazio e che impone alle immagini delle stelle distorsioni, brillii e luccichii (tanto romantici per gli innamorati quanto seccanti per gli scienziati in cerca della più alta risoluzione possibile). Adesso siamo alla vigilia di un’altra rivoluzione, perché nel 2014 è previsto il lancio del «James Webb Space Telescope», con specchi del diametro di 6,5 metri (lo «Hubble» si fermava a 2,4) a circa 1,5 milioni di chilometri dalla Terra. Ma a parte il fatto che è da verificare che la data del 2014 sia rispettata (la storia dell’astronautica è un florilegio di rinvii più che di appuntamenti rispettati) lo «Hubble» avrà comunque da dire la sua ancora per anni, visto che «Webb» opera nell’infrarosso e invece il telescopio attuale nella luce visibile e nell’ultravioletto. Inoltre l’ultima missione dello Space Shuttle per riparare «Hubble» e aggiornarlo risale ad appena il maggio del 2009 e lo ha riportato in perfetta efficienza, anzi ha potenziato il telescopio orbitale con strumenti e tecnologie nuovi di zecca. Antonella Nota è la scienziata italiana responsabile e coordinatrice dei programmi dello «Hubble» per l’Esa (l’agenzia spaziale europea) e probabilmente svolgerà lo stesso ruolo per il futuro «Webb»; è anche la curatrice scientifica di una grande mostra internazionale a Venezia (Palazzo Loredan) che mira a fare il punto sull’astronomia spaziale. Quando le chiediamo di citarci 10 cose fondamentali scoperte da «Hubble», non ha bisogno di starci a pensare. «Numero uno - spiega -: con i telescopi da Terra riuscivamo a vedere solo una parte dell’Universo. Con “Hubble” lo vediamo quasi tutto, fino a 13 miliardi di anni luce, cioè solo 700 milioni di anni dopo l’origine. E con “Webb” arriveremo proprio ai confini e avremo immagini nitide delle prime stelle e delle protogalassie, cioè i blocchetti primordiali da cui sono nate le galassie come la nostra» (per capire il senso di questo discorso si tenga presente che alle distanze cosmologiche, ce lo ha insegnato Einstein, guardare indietro nello spazio significa anche guardare indietro nel tempo). Fra l’altro, quello delle stelle giovani è proprio il settore specifico di studio di Antonella Nota, al di là delle competenze generali. E allora, che cosa si aspetta che ci rivelerà «Webb»? «Beh - risponde - quello che ci ha insegnato “Hubble” è che i risultati più importanti arrivano inaspettati!». Proseguiamo con la mini-rassegna di quello che ha scoperto «Hubble». «Punto due. Credevamo che la massa dell’Universo stesse gradualmente rallentando il Big Bang. Invece il telescopio orbitale, usando le esplosioni delle supernove come marcatori, ha scoperto che la velocità di espansione è rallentata solo nei primi 7 miliardi di anni, mentre poi è cominciata un’inspiegabile accelerazione, che non si sa a che cosa sia dovuta. Per ora la attribuiamo a una non meglio definita “energia oscura”». Tre. «Usando come marcatori le stelle Cefeidi, “Hubble” ha misurato con precisione la distanza di tutte le galassie». Quattro. «Prima di “Hubble”, i nuclei delle galassie ci apparivano come masse indistinte. Adesso li abbiamo “risolti” nei dettagli». Cinque, e qui passiamo dalla scala cosmica a quella stellare. «“Hubble” ha scattato un’infinità di immagini nitide e spettacolari di come le stelle nascono, vivono e muoiono». Sei. «Per la prima volta ci ha mostrato - rilevandoli in un 50% di casi - i dischi di gas e di polveri che circondano le stelle giovani e da cui riteniamo che nascano i pianeti come la Terra». Sette. «“Hubble” ci ha fatto vedere le prime immagini di pianeti al di fuori del sistema solare. Adesso abbiamo la prova che ce ne sono, e possiamo ragionare di vita extraterrestre partendo da questa certezza». Otto. «Di questi pianeti “Hubble” ha cominciato persino a studiare le atmosfere, osservandole in controluce quando un pianeta transita (dal nostro punto di vista) davanti alla sua stella». Punto nove, e qui ci portiamo alla scala del nostro sistema solare (perché sì, anche nel cortile di casa ci sono cose da scoprire): «“Hubble” ci ha permesso di studiare a fondo l’atmosfera dei nostri pianeti esterni Giove, Saturno, Urano e Nettuno, e ha persino rivelato che gli stessi anelli di Saturno hanno una loro tenue atmosfera». E infine - dieci - «abbiamo ottenuto le prime foto ad alta risoluzione della coppia Plutone-Caronte ai limiti del sistema solare, e “Hubble” ha pure preso le misure di Eris, un corpo celeste che oltre che più distante si è rivelato più grande di Plutone». Ma questi 10 punti, sia chiaro, servono solo a dare una prima idea; le foto mozzafiato alla mostra di Venezia passano in rassegna tutto, dalle galassie che si scontrano alle stelle che esplodono. Un’ultima domanda ad Antonella Nota: se con «Webb», gettando l’occhio nel profondo dello spazio-tempo, osserveremo le protogalassie all’origine dell’Universo, vedremo anche quelle che hanno creato la nostra? Cioè vedremo noi stessi 13,7 miliardi di anni fa? La scienziata esita un po’: «Beh, se le vedessimo, non potremmo riconoscerle...». Ma chissà che non si trovi, prima o poi, un parametro identificatore, o un marcatore che ci faccia dire: sono quelle. Siamo noi.