ANNA ZAFESOVA, La Stampa 29/9/2010, pagine 15, 29 settembre 2010
Licenziato il sindaco di Mosca Medvedev: “Non mi fido più” - Nel suo ufficio, nel palazzo rosso con le colonne di Tverskaja 13, residenza fin dai tempi degli zar del governatore di Mosca, fin dalla mattina si erano ammucchiati mazzi di fiori e voluminosi pacchetti regalo
Licenziato il sindaco di Mosca Medvedev: “Non mi fido più” - Nel suo ufficio, nel palazzo rosso con le colonne di Tverskaja 13, residenza fin dai tempi degli zar del governatore di Mosca, fin dalla mattina si erano ammucchiati mazzi di fiori e voluminosi pacchetti regalo. Dipendenti, seguaci, ammiratori e clienti di Yuri Luzhkov si spintonavano nell’atrio per essere tra i primi a fargli gli auguri di compleanno. Ma la vera sorpresa per i 74 anni del sindaco è arrivata dal Cremlino: una busta con il decreto di licenziamento, firmato da Dmitry Medvedev, con l’inaudita e impietosa formulazione «per perdita di fiducia del presidente». Nei corridoi del municipio si è diffuso il panico. Chi elogiava ancora il «grande statista», chi fuggiva per non venire schedato tra gli sconfitti. Tutti sapevano che Luzhkov ultimamente era ai ferri corti con il Cremlino, e correva voce che gli fosse stata concessa una settimana di tempo per dimettersi. Ma nessuno riusciva a credere che il presidente avrebbe avuto il coraggio di buttare fuori un mastodonte della politica, che governava Mosca ininterrottamente dal 1992 (e di fatto dal 1990). Non ci credeva forse nemmeno Luzhkov, che allo scadere dell’ultimatum si è presentato in ufficio come nulla fosse. Un’ora dopo, dalla lontana Cina dove era in visita, e nonostante il fuso orario, Medvedev ha fatto arrivare il decreto. E, per cancellare ogni dubbio, ha aggiunto: «Luzhkov non è stato rimosso. L’ho licenziato io. E’ la prima volta, e potrebbe non essere l’ultima». Il ruggito del giovane zar ha fatto tremare Mosca. Aveva già osato licenziamenti sommari di poliziotti e governatori in odore di corruzione. Ma Luzhkov era il padrone indiscusso della città dove si concentra l’80% dei soldi russi, aveva vinto tutte le elezioni con almeno il 70% dei voti, e a colpi di ruspa, miliardi e cattivo gusto aveva stravolto Mosca forse più di quanto avesse fatto il comunismo, costruendo la metropoli moderna, arrogante e pacchiana che tutta la Russia odia e dove tutta la Russia vorrebbe abitare. Ma soprattutto era l’inventore di un sistema-città poi brevettato in tutto il Paese, un autoritarismo populista-nazionalista di cordate familiari, racket burocratico, media addomesticati e consenso elettorale comprato, con il potere e il business che diventano un insieme inestricabile di interessi e complicità. A temere per il proprio futuro, dopo 20 anni di suo governo, saranno gli oligarchi come gli spazzini, i vigili corrotti come i pensionati e gli intellettuali (il sindaco non ha lesinato finanziamenti a teatri e musei) ma soprattutto i burocrati, che finora avevano una sorta di impunità garantita. Mentre ora i magistrati parlano di indagini per corruzione che puntano molto vicino all’ex sindaco. Per quale motivo Medvedev abbia «perso la fiducia» nel padrone di Mosca resta un mistero. E’ vero che si era mostrato infastidito quando l’estate scorsa, con i roghi delle torbiere che soffocavano Mosca, il sindaco se ne era andato in vacanza in Europa. E’ vero che la settimana scorsa le tv del Cremlino avevano all’improvviso trasmesso documentari-denuncia su Elena Baturina, la moglie di Luzhkov diventata la donna più ricca della Russia (e terza nel mondo) grazie ad appalti edili concessi dal comune. Ma finora Luzhkov era rimasto inscalfibile a tutto. Ad anni di polemiche per lo scempio della capitale, che con lui ha perso 700 monumenti storici, sostituiti da centri commerciali e alberghi costruiti dagli amici del sindaco. A una sfilza di attentati contro i responsabili del comune che assomigliavano a regolamenti di conti mafiosi. A un regime di apartheid contro immigrati e minoranze etniche. A certezze, più che sospetti, sulle ruberie: un anno fa uscì un’indagine dalla quale risultava che un chilometro del raccordo anulare, fiore all’occhiello del sindaco, era costato ai contribuenti più o meno quanto l’acceleratore di particelle del Cern. Ma un tribunale moscovita aveva condannato gli autori dell’inchiesta per diffamazione. Pochi mesi dopo, invece, la caduta in disgrazia. Secondo alcuni commentatori, l’ultima goccia è stato l’articolo in cui il sindaco difendeva il progetto di autostrada per Pietroburgo, voluto da uomini vicini a Putin e bloccato dal presidente dopo le proteste degli ambientalisti. Medvedev tiene alla sua immagine di uomo che dialoga con la società civile, ma ancora di più alla lealtà dei politici, in vista di quella sfida per ora sotterranea tra lui e Putin, che nel 2012 puntano entrambi al Cremlino. Il premier ha mantenuto il silenzio fino a ieri, quando ha approvato a denti stretti la decisione del suo successore: «Luzhkov avrebbe dovuto normalizzare i rapporti con il presidente prima», ha detto gelidamente, aggiungendo subito dopo di aver già discusso con Medvedev la candidatura del nuovo sindaco, che verrà probabilmente dal clan dei «pietroburghesi» al quale appartengono entrambi i leader russi.Fu dopo la strage di Beslan, nel settembre 2004, che Vladimir Putin annunciò una serie di drastiche riforme dello Stato volte a consolidare la «verticale del potere» da lui costruita a cominciare dal 2000. Tra queste misure ci fu l’abolizione delle elezioni dirette dei governatori, ai quali sono equiparati anche i sindaci di Mosca e San Pietroburgo. Fino a quel momento i primi cittadini si conquistavano la poltrona in elezioni dirette. Ma la nuova legge elettorale ha tolto ai russi il diritto a decidere chi li governa: da allora è il presidente a nominare i governatori delle regioni, i presidenti delle repubbliche autonome e i sindaci delle due maggiori città. Il consiglio legislativo locale può opporsi alla scelta del capo dello Stato, ma al terzo «niet» alla sua candidatura viene sciolto. Medvedev ha introdotto la modifica che il candidato viene scelto tra una rosa presentata dal partito che ha vinto le elezioni regionali.