Enrico Brivio, Il Sole 24 Ore 26/9/2010, 26 settembre 2010
QUELL’ONDA DI RABBIA DAI TEA PARTY ALL’EUROPA
Difficile immaginarli tutti assieme in una foto di famiglia. Cogliere in un unico colpo d’occhio il tailleurino sgargiante dell’icona dei Tea Party Sarah Palin e la chioma argentea del paladino olandese anti-islam Geert Wilders, la sagoma sovrappeso del tecno-xenofobo nipponico Makoto Sakurai e il viso da bamboccione dell’oltranziasta svedese fresco di elezione, Jimmie Akesson. Con magari lì nell’angolo la figlia d’arte Marine Le Pen e l’indipendentista euroscettico British Nigel Farage, in un grande gruppo in cui Umberto Bossi avrebbe storicamente le carte in regola per rientrare e il capopopolo Beppe Grillo non stonerebbe affatto.
Loro stessi, però, non amano essere accomunati in un’unica cornice politica, come la nutrita pattuglia nordeuropea dimostra, incapace di condividere uno stesso gruppo parlamentare nell’aula di Strasburgo (anche se alcuni si ritrovano sotto l’ombrello di Europe of Freedom and Democracy (Efd)). Sono però di per sé individualisti e atipici gli esponenti del neopopulismo che in vari angoli del mondo stanno mietendo successi di questi tempi. I loro inattesi trionfi hanno radici comuni facili da identificare, meno agevoli da dissezionare.
Sono i portavoce nei paesi avanzati dei malumori e delle frustrazioni della "generazione delle aspettative ridotte", la prima che si attende un futuro peggiore di quello dei genitori. I sermoni dei tribuni neopopulisti - iperliberisti o intolleranti che siano - danno comunque punti di riferimento a famiglie fiaccate dalla crisi economica, giovani terrorizzati di rimanere incatenati a vita a lavori precari, cinquantenni timorosi di entrare in un tunnel di disoccupazione senza uscita e pensionati che faticano ad arrivare a fine mese. Gente che sente sulla propria pelle e constata sul proprio conto corrente un esagerato peso del fisco, identificato, a torto o ragione, con un superstato centrale o comunitario da combattere. Da qui l’esigenza di riappropriarsi di forme di politica più diretta, si tratti anche solo di berciare slogan sguaiati a un meeting o digitare insulti in un hate group.
È una middle class - ma non solo - che si incolonna insoddisfatta ogni mattina per andare a un posto di lavoro che spesso non ama, in Suv di seconda mano in Tennessee o in station wagon in Scandinavia, nelle periferie di Tokyo come di Marsiglia. Un popolo che ne ha le tasche piene degli eccessi di atteggiamenti politically correct, figli del ’68, e si connette abitualmente nelle pause di lavoro a Facebook e altri social network globali per testimoniare la propria insofferenza, mentre si sente ormai sconnesso dal mercato rionale, perchè fatica a familiarizzare con l’ambulante cinese e il fruttivendolo maghrebino. E teme che qualche altro "diverso" disperato lo borseggi la sera. Anche per questo, nella terra desolata delle ideologie del terzo millennio, è un elettorato che sente disperatamente il bisogno di rimanere aggrappato a un’identità locale.
È perciò interessante approfondire caso per caso le diverse onde di populismo che stanno percorrendo i paesi sviluppati. Seppure gli ingredienti delle aspirazioni e dello scontento degli elettori siano simili, vi sono enormi differenze nel cocktail politico dei nuovi tribuni che arringano il popolo "dalle aspettative ridotte". Rabbia e orgoglio si declinano in diverse forme nelle diverse culture. Nei Tea Party americani prevale il sentimento liberista e di ribellione al fisco federale, nel Partito per la Libertà di Geert Wilders la furia anti-islamica, nei nazionalisti fiamminghi la volontà di scindere il Belgio per avere un’amministrazione più ricca e efficiente, nei nazionalisti britannici nell’Ukip la rivolta nazionalistica euroscettica contro Bruxelles. I giapponesi del Zaitokukai sono animati da un nostalgico revanscismo che porta a difendere perfino la pesca di delfini e balene dai bandi internazionali come tratto dell’identità nazionale, negli ungheresi dello Jobbik prevalgono l’antisemitismo e l’insofferenza nei confronti dei rom. C’è poi Marine Le Pen, che in Francia tenta il restyling soft del Fronte nazionale ereditato dal padre, mentre in Germania si registra una grande fibrillazione politica per coprire il terreno - quasi vergine ma assai fertile - a destra della Cdu, abbandonando i tabù di correttezza dell’era post-nazista.
Il Sole 24 Ore inizia oggi, con il reportage qui a fianco di Michele Pignatelli sui nazionalisti fiamminghi in doppiopetto di Bart De Wever, una serie di approfondimenti sul neopopulismo che continueranno nei prossimi giorni. «Se il governo teme il popolo, c’e libertà» ha tuonato l’esponente del Tea Party, Christine O’Donnell, attribuendo erroneamente la citazione a Thomas Jefferson. In realtà, cercare di capire un po’ più a fondo certi confusi fenomeni politici, con occhi critici ma senza preconcetti allarmismi, si spera aiuti a ridarci la libertà di non avere paura.