FLAVIA AMABILE, La Stampa 28/9/2010, pagina 13, 28 settembre 2010
“Batto il tumore togliendogli il nutrimento” - Professor Napoleone Ferrara, il Premio Lasker si assegna agli scienziati che hanno cambiato il mondo, ma la notizia che lei ha vinto l’edizione 2010, a una settimana dall’ufficializzazione, è apparsa solo su alcune riviste specializzate e in un sito di scienza on line italiano che ha totalizzato 108 visite
“Batto il tumore togliendogli il nutrimento” - Professor Napoleone Ferrara, il Premio Lasker si assegna agli scienziati che hanno cambiato il mondo, ma la notizia che lei ha vinto l’edizione 2010, a una settimana dall’ufficializzazione, è apparsa solo su alcune riviste specializzate e in un sito di scienza on line italiano che ha totalizzato 108 visite. Si aspettava questo silenzio dall’Italia? «Ci sono tante altre cose che accadono. Non saprei che cosa rispondere. Molti colleghi mi hanno telefonato, so che la notizia è apparsa sulla stampa specializzata. Me l’aspettavo, va bene così». Da quanto tempo è andato via dall’Italia? «Era la fine del 1982, avevo 26 anni». Ed era un ginecologo, dicono. «Nemmeno, frequentavo una scuola di specializzazione». Un quasi-ginecologo. E come si arriva a diventare uno scienziato in odore di Nobel? «E’ stato il professor Umberto Scapagnini a offrirmi quest’opportunità. Non era ancora sceso in politica. Era tornato dagli Stati Uniti ed era diventato il più giovane professore ordinario italiano di farmacologia medica. Aveva portato una ventata di novità nel mondo accademico a Catania e mi aveva aiutato a ottenere una borsa di studio all’università di San Francisco. Sono partito con l’idea di rimanere due o tre anni». E invece non è più tornato. «Era troppo interessante andare avanti nelle ricerche scaturite da una mia osservazione iniziale». Qual era stata l’intuizione? «Che esistesse un fattore di crescita delle cellule cancerogene e, quindi, è stato necessario compiere un lungo lavoro per isolare il Vegf, la proteina alla base di questa scoperta». E la borsa di studio è diventata un contratto alla Genentech, la grande azienda che ha dato origine all’industria delle biotecnologie e che è leader per i farmaci oncologici negli Stati Uniti. «Sono stato fortunato, ho avuto l’opportunità di lavorare in un ambiente molto interessante, innovativo e dove ho potuto continuare la ricerca». Non ha perso, però, i contatti con l’Italia. «Torno volentieri, almeno due o tre volte l’anno. Ho tanti amici ed ho partecipato anche a molti incontri. Amo l’Italia». Tornerebbe a lavorarci? «Non si può mai dire. Ho tanti colleghi che hanno scelto soluzioni part-time, lavorando in parte all’estero e in parte in Italia». Che cosa ha trovato negli Stati Uniti che il mondo della ricerca italiano non ha? «Il livello di tecnologia, l’organizzazione, la metodologia che negli Stati Uniti è un sistema, in Italia solo qualcosa di sporadico che si può trovare qui e là. E la Genentech è la punta più avanzata della tecnologia: offre un livello superiore persino a quello delle università statunitensi». Quale sarà il prossimo obiettivo della sua ricerca? «Intendo seguire ancora il filone dell’angiogenesi e della terapia della degenerazione maculare, dove i risultati sono stati superiori alle aspettative. E’ utile lavorarci ancora e trovare altri farmaci». In Italia in questo momento i ricercatori vivono un momento particolarmente difficile. Che consiglio si sente di dare? «Ogni strada è individuale. Non credo che esista una soluzione valida per tutti. Bisogna innanzitutto chiedersi qual è la domanda scientifica a cui dare una risposta e poi capire dove si può trovare la risposta». In Italia, forse, non è semplice per un ricercatore trovare le domande. «Ma no, al giorno d’oggi le tecnologie offrono opportunità a tutti e in ogni parte del mondo».