Beppe Severgnini, Corriere della Sera 28/09/2010, 28 settembre 2010
L’ITALIA, UN LUOGO COMUNE, NEI (NUOVI) FILM AMERICANI
Mangia (in Italia), prega (in India), ama (a Bali). E non dimenticare, prima di partire: piangi (in America). «Eat Pray Love» non è un film, è l’Onu delle banalità. Lasciando a indiani e balinesi le giuste rimostranze per come viene trattato il loro Paese, diciamo che l’Italia ne esce come lo scantinato d’Europa. Le vecchiette sono eccentriche, gli uomini assatanati, i passanti volgari e tutti parlano solo di cosa stanno mangiando, hanno mangiato o mangeranno. Questo non dispiace alla visitatrice americana. Se uno va nella giungla mica si lamenta per le scimmie, no?
Voi direte: non è una novità. Io rispondo: appunto. È da tempo che ci trattano così. Film e libri: ma i film fanno più male perché li vede più gente e contengono meno sfumature. Vien da dire: se per avere questa commedia pagano bene, perché no? Ma anche Arlecchino, dopo un po’, si scoccia.
Un tempo gli americani ci gratificavano con le immagini di «Vacanze Romane»: Audrey Hepburn e Gregory Peck in Vespa, senza casco e senza pensieri. Oggi ci puniscono con i bagni senza acqua calda — così pittoreschi! — ei vaffa per strada (con fermo immagine). Così divertenti! Soprattutto se non capisci che stanno dicendo a te.
La protagonista del film, Julia Roberts, non ha colpe particolari: Pretty Woman è ormai una bella signora, e ha il sorriso incantevole di chi cercava una palestra per i sentimenti, e l’ha trovata. Uno dei personaggi si chiama Luca Spaghetti: non è un nome inventato, si tratta di un incolpevole amico dell’autrice del bestseller da cui è tratto il libro, Elisabeth Gilbert, forse non troppo dispiaciuta della gastronomica coincidenza.
Anche Sofia Coppola, squisita specialista in camere d’albergo, crea un angolo italiano dentro «Somewhere», fresco vincitore del Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia. Stavolta il film è piuttosto bello, ma la figura che facciamo è decisamente brutta. Milano invece di Roma, televisione invece di trattorie, i Telegatti invece di Trastevere. L’impressione è di essere scivolati nella periferia del mondo, pronta a sbracarsi per l’ospite di turno.
Nell’edizione originale i dialoghi delle scene milanesi sono in italiano, senza sottotitoli: la sensazione, per lo spettatore, è quella di un luogo stonato e sfiancato, un festival di carni e urla, dove tutti esagerano, come giullari in cerca di un Signore che li guardi. Probabilmente è l’impressione di Sofia, che all’età di vent’anni accompagnò alla cerimonia dei Telegatti il padre Francis Ford Coppola. Un trauma da cui, evidentemente, non s’è ripresa.
L’inviato de «il Post», Gabriele Niola, ha scritto: «La regista non ha insomma sparato a caso e nel mucchio, ma con precisione chirurgica. E sebbene fossi preparato e mi vanti di non farmi impressionare da queste cose, un po’ mi ha fatto male».
Non si preoccupi, il collega: sono ferite superficiali. Aspetti che gli amici americani puntino le telecamere sulla politica italiana, se vuole rimanerci veramente male. In una puntata della serie televisiva «30Rock» con la geniale Tina Fey (poi scivolata malamente in «Notte folle a Manhattan») c’è una festa di Halloween, e compare una segretaria, belloccia e svampita, in bikini. «Ragazzi, sono così eccitata che ho già indossato il mio costume! Come, non capite?! Sono un senatore italiano!».
Volendo essere masochisti, potremmo suggerire altro. Che so, un lungometraggio dal titolo «Cinquanta giorni a parlare di cinquanta metri quadri». Nella parte di Gianfranco Fini, Jim Carrey. Ha già fatto «The Truman Show», e non dovrebbe avere difficoltà.
Beppe Severgnini