Christian Rocca, Il Sole 24 Ore 28/9/2010, 28 settembre 2010
UN TEA NELLA PANCIA DELL’AMERICA
Tra "morning" e "mourning" non c’è soltanto una "u" di differenza, ma la conferma che l’ondata neopopulista dei Tea Party che minaccia l’America di Barack Obama, ma anche quella repubblicana, in realtà sia riuscita a cambiare la natura politica, culturale e ideologica del mondo conservatore.
Nel 1984 fece epoca lo spot elettorale del presidente Ronald Reagan. Si intitolava «It’s morning again in America». Era di nuovo mattina. Si apriva un nuovo giorno radioso per l’America che si ribellava al "malessere" post Vietnam e post Watergate di cui parlava Jimmy Carter. «Con la leadership del presidente Reagan – concludeva lo spot – il nostro paese è più orgoglioso, più forte e migliore».
Ventisei anni dopo, alla destra conservatrice ormai guidata programmaticamente dai Tea Party è rimasto soltanto il patriottismo costituzionale e l’eco lontana, e spesso distorto, del reaganismo economico. Un nuovo spot elettorale, lanciato dagli stessi Citizens for the Republic che allora promossero "It’s morning again in America", sostiene che stavolta "There’s mourning in America". L’America è a lutto. Lo spot 2010 segue lo schema di quello del 1984, ma anziché esaltare le offerte di lavoro, la creazione di nuove famiglie, le opportunità di acquistare case e beni di consumo preferisce contare il numero dei disoccupati, i debiti con cui nascono i neonati, i pignoramenti delle abitazioni.
«L’America è a lutto. Con la leadership del presidente Obama, il nostro paese svanisce, è più debole, sta peggio». Soprattutto, spiega lo spot, «lo stato ha preso il controllo delle nostre scelte di vita». La Right Nation non è più ottimista, fiduciosa, sognatrice. La Tea Party Nation è pessimista, senza illusioni, a lutto. Non guarda avanti, ma indietro. Il "malessere americano" è tornato, ma questa volta il disagio è invocato dalla destra.
Il fenomeno dei Tea Party è una ribellione popolare dal basso, ispirata vagamente a quella mitica dei coloni di Boston contro le tasse britanniche nel 1773. I nuovi populisti americani, ha scritto perfidamente Maureen Dowd sul New York Times, non sono conservatori tradizionali, non vogliono tornare agli anni 50, semmai al 700.
Non sono etnici, non sono religiosi, non chiedono la chiusura delle frontiere. I Tea Party non hanno leader. Non hanno un partito. Non hanno un manifesto politico. Sarah Palin, Glenn Beck e i tanti candidati alle elezioni di metà mandato del 2 novembre sono nomi di richiamo, ma nessuno di loro può parlare a nome del movimento.
I capi del Gop cercano di adeguarsi, ma non sempre vengono presi sul serio. Gli apparati del partito repubblicano e i grandi finanziatori d’area si limitano a dare consigli, se richiesti, e a fornire addestramento politico, soldi e strumenti. Le tecniche di organizzazione politica sono quelle della sinistra sociale, paradossalmente mutuate dalle regole per i radicali scritte di Saul Alinski, guru di Obama e di Hillary Clinton.
Tutto è cominciato il 19 febbraio 2009. Alla Borsa di Chicago, il cronista della Cnbc Rick Santelli aveva accusato la Casa Bianca di favorire i comportamenti rischiosi dei banchieri spericolati, dei manager fallimentari e dei cittadini che compravano case che non si potevano permettere. Il suo sfogo in diretta televisiva si concluse con l’idea di fondare un «Chicago Tea Party». L’anno precedente, per le strade già si vedevano sfilare gruppi di americani in divisa da patrioti settecenteschi inneggianti alla Costituzione. Era stato il candidato repubblicano Ron Paul, l’unico politico integralmente libertario del Congresso, a intercettare la rabbia per l’espansione del settore pubblico avviata da Bush e dal suo conservatorismo solidale.
La campagna radicale di Paul fece molto rumore, ma prese pochi voti. La ricetta per guarire la crisi economica, prescritta da Bush e poi adottata da Obama, ha intensificato la protesta. La decisione della Casa Bianca d’intervenire anche sulla sanità, impegnando altri fondi pubblici, ha reso irresistibile la rivolta. La continua perdita dei posti di lavoro ha fatto il resto.
Il successo dei Tea Party è lo specchio del malcontento popolare nei confronti di Washington e delle scelte politiche dei politici di professione, di destra e di sinistra, di Bush e di Obama. Non si esce dalla crisi economica, dicono i suoi seguaci, sprecando i soldi pubblici (che non ci sono), tassando i cittadini, indebitando le generazioni future. I candidati dei Tea Party vogliono meno stato e meno tasse. Vogliono essere lasciati in pace. Venerano la Costituzione e la libertà individuale. Si candidano alle elezioni con i partiti tradizionali. Scelgono la strada politica, libertaria, istituzionale.
Non è una novità, in tempi di crisi economica. Gli americani imbracciano spesso i forconi della protesta, come racconta American Gothic, il celeberrimo quadro del 1930 di Grant Wood. Il populismo è una costante della tradizione politica statunitense, ma la sua furia viene spesso assorbita dai meccanismi democratici e costituzionali.