Sofia Gnoli, il venerdì n.1175 24/9/2010, 24 settembre 2010
NON CHIAMATEMI STILISTA: I MIEI SONO SOLO STRACCI (MA RICCHI DI MEMORIA)
[Intervista ad Antonio Marras]
Atipico, lontano dalle strette regole commerciali e dai luoghi comuni, Antonio Marras detesta essere definito stilista. «Lo trovo» dice «un termine orribile. Mi fa pensare immediatamente ai colori di stagione, a falpalà e chiffon, niente di più distante dal mio concetto di moda». Non viaggia in aerei privati di lusso e non fa capricci da primadonna, Marras ha raggiunto il successo seguendo il ritmo del suo cuore. E della sua creatività. Ama il recupero e le citazioni etniche, realizza abiti che raccontano storie e si autodefinisce «un artigiano del tessuto».
Nato ad Alghero nel 1961, vive con la sua famiglia (la moglie Patrizia e i due figli Efisio e Leonardo) in una grande casa-studio sulla collina di Monte Sisini, a pochi chilometri dalla sua città natale. Al contrario di molti suoi colleghi amanti del jet set e contornati da celebrities, si arrabbia al solo suono di questa parola. «Sono nato fuori dalle rotte della moda» dice, «la Sardegna infatti non esiste nel panorama dello stile».
Eppure lui disegna dodici collezioni l’anno e, oltre alle linee che portano il suo nome, dal 2003 è direttore artistico di Kenzo, la griffe francese creata nel 1970 dallo stilista giapponese Kenzo Takada, che celebra in questi giorni il suo quarantesimo anniversario.
Come concilia la freneticità dei suoi ritmi di lavoro con la decisione di vivere isolato sulle colline di Alghero?
«A meraviglia. In un momento in cui tutti vogliono sentirsi glam e internazionali, trovo che ci sia sempre più bisogno di radici e di pace. E poi, pur viaggiando molto, adoro la mia terra. Perché
lasciarla, visto che in un’ora di aereo posso arrivare a Milano o a Parigi? Nel 2003, quando sono diventato direttore artistico di Kenzo, il trasloco a Parigi era previsto dal contratto. I manager della Louis Vuitton Moët Hennessy (la holding del lusso proprietaria di Kenzo, ndr.) mi hanno fatto una proposta così allettante che solo un pazzo avrebbe rifiutato».
E lei?
«Ho rifiutato. Qualche tempo dopo il team di Kenzo è venuto a trovarmi qui, nel mio studio, nessuno voleva più andar via. Hanno capito perché non mi trasferirò mai».
La Sardegna per lei è ancora
una fonte d’ispirazione?
«Appartengo a un’isola che è stata un crocevia di popoli: fenici, romani, spagnoli. E questo si riflette anche nella poliedricità dei costumi della mia terra. Mi incuriosisce però anche tutto ciò che è al di là del mare che ci circonda. Sono sempre stato attratto dai contrasti. Mi piacciono allo stesso modo le ricche sovrapposizioni che caratterizzano l’abbigliamento sardo e l’essenzialità di capi come il kimono».
Da cosa nasce l’idea per una
collezione?
«Dalle cose più disparate, un bel libro, una vecchia foto, una sensazione. Per me progettare una collezione non significa realizzare un abito, studiare la lunghezza di un orlo o scegliere le dimensioni dei pois, quanto ottenere una sintesi di tutto ciò che mi circonda. Con le mie creazioni amo invadere territori come la danza e il teatro, la letteratura, la musica, il cinema e l’arte. Concepisco il mio lavoro come una sceneggiatura, mi piace sempre costruire una storia intorno agli stracci che faccio».
Le sue creazioni sono molto vicine al vintage e al recupero della memoria e della tradizione...
«Gli abiti del passato esercitano un grande fascino su di me. Cerco di immaginare chi li ha indossati, poi li reinterpreto e li rendo protagonisti di una nuova storia. Una volta ho lavorato sulle giacche consunte dei pastori sardi, un’altra sui gilet appartenuti agli orchestrali della filarmoni-
ca di Vienna, un’altra ancora sul guardaroba che mi aveva lasciato un vecchio zio emigrato in Argentina. Per alcuni è inconcepibile, per me invece è una vera fortuna poter dare, attraverso i suoi oggetti personali, nuova vita a chi è vissuto prima di noi».
Come è arrivato alla scelta
di disegnare abiti?
«Sono nato tra le pezze. Mio padre aveva ad Alghero uno storico negozio di tessuti. Poi, negli anni, lo trasformò in una boutique. Il mio primo viaggio l’ho fatto con lui per andare da Fiorucci. Sono rimasto folgorato. Quel magazzino mi sembrò una sorta di caverna di Alì Babà, c’erano centinaia di bracciali indiani, scialli africani, capi di abbigliamento raccolti in giro, che poi venivano trasformati da Elio in pezzi del mondo Fiorucci. La moda mi ha incantato, ho gettato nel cestino il mio diploma di ragioniere e
mi ci sono buttato a capofitto».
Rispetto ai suoi esordi, come
è cambiata oggi la moda?
«Diciamo che la crisi ha dato a tutto il sistema un bello scossone. Ci troviamo in una fase in cui si vanno sempre più delineando due distinti scenari. Da una parte le grandi catene, che riproducono con piccole
varianti le creazioni dei designer a prezzi irrisori, dall’altra gli stilisti, senza le cui idee le catene low cost non potrebbero esistere».
C’è una via d’uscita?
«Sperimentare, fare abiti con una forte identità, caratterizzati da interventi manuali. Nasce proprio da questo Il Laboratorio, una sorta di collezione nella collezione (che sfila oggi a Milano, ndr), composta da pezzi unici realizzati artigianalmente, in cui trasformo un difetto, un errore apparente, in mezzo per affermare che l’ideale di bellezza del nostro tempo sta nella realtà quotidiana, con tutte le sue contraddizioni. Nella cultura zen la tazza da tè perfetta è priva di valore, quella con un’irregolarità è dell’imperatore».