Gilles-Martin Chauffier, il venerdì n.1175 24/9/2010, 24 settembre 2010
VI RACCONTO UN ROMANZO DOVE FACCIO MORIRE ME STESSO
[Intervista a Michel Houellebecq]
Parigi. La carta e il territorio (che esce a giorni per Bompiani) inizia in casa di un vecchio signore derubato dalla sua colf immigrata, nella banlieue parigina, un territorio che il narratore descrive commissione abbandonato alle gang, invaso da una popolazione brutale, violenta e incontrollata. In un altro passaggio si parla di classi inferiori. La solita provocazione?
«No, è un ricordo. Quando avevo dieci anni, un giorno andai a Le Rancy, in una bella casa con una biblioteca. Fu l’unica volta, e oggi mi chiedo che fine abbia fatto quella casa. Se parlo di classi inferiori, mi riferisco a quelli che discutono di sport; per loro la letteratura è un tema irrilevante, come del resto per le élite borghesi. Adoro l’idea che finiremo come soggetto di conversazione residuale. Detto questo – sì, mi piace il parlare franco. Non mi piacciono le circonlocuzioni. Quanto poi alle zone incontrollate, direi che oggi tutto è fuori controllo. L’economia, il clima, i virus, tutto ci sfugge. E una soluzione politica non si vede da nessuna parte. Ma è nel campo scientifico che questa situazione appare più inquietante. Sui problemi del clima gli esperti si accapigliano al punto da far apparire aneddotiche le dispute tra scrittori. Quanto poi alla medicina, si ha l’impressione che arrivi sempre in ritardo di un’epidemia».
Parlando dell’adolescenza studiosa del protagonista, Jed Martin, lei lo descrive come persona colta, citando tra l’altro la sua familiarità con i gradi autori cristiani; mentre in generale i suoi contem-
poranei conoscono la vita dell’Uomo Ragno meglio di quella di Gesù.
«Di fatto, ho attribuito al personaggio il percorso culturale che avrei desiderato per me. Ho letto i classici in maniera disordinata, a casaccio, perché avevo trovato un mucchio di tascabili in un baule abbandonato. Leggere Eschilo a 12 anni non è certo l’ideale. Ero affascinato, ma non ne capivo nulla. Il mio primo, buon professore di francese, l’ho avuto in terza. Me la sono cavata da solo. Ma di fatto è proprio per questo che non mi preoccupo. Bisogna aver fiducia nella curiosità delle persone. Troveranno su Internet le vie per arrivare a ciò che le interessa. Non avremo più neppure bisogno di supporti cartacei; e gli editori non saranno costretti a rovinarsi per mantenere disponibili anche gli autori marginali. Non tutto è perduto, anzi direi proprio il contrario».
La televisione ha un ruolo di grande rilievo nel suo libro; è vista addirittura come un’arma per chi non ne può più di una società tutta centrata sui soldi e l’apparenza, e ha sete di ecologia, di autenticità, di «valori genuini».
«La Francia sta tornando alle sue vocazioni iniziali, l’agricoltura e il turismo, una specie di conservatorio dei paesaggi e dei mestieri artigianali antichi. È questa la Francia vincente. E il cantiere è enorme. C’è grande abbondanza di manieri in rovina che chiedono solo di essere trasformati in Hôtel de charme per i russi, i cinesi e tanti altri. Se saprà ripiegare su attività tranquille, poco esposte alla congiuntura, la Francia giocherà la sua carta migliore».
I suoi due protagonisti vanno ad abitare in province remote. Sembra che anche per lei, come per Rousseau, la campagna torni a «fare tendenza». Il suo libro è un’apologia della decrescita tranquilla?
«Rousseau l’ho proprio dimenticato. La sola cosa che ricordi in effetti è quell’ode alla campagna. Ma fondamentalmente non sono d’accordo con lui. Non credo che allo stato naturale l’uomo fosse buono, né che sia stata la società a pervertirlo. Secondo me non è così. E non mi faccio illusioni sul mondo rurale. In campagna la gente è inospitale, aggressiva e stupida. D’altra parte bisogna riconoscere che sono persone infelici. Economicamente vivono nell’angoscia, e questa è una scusante valida. Oltre tutto, per i contadini è persino difficile trovare moglie. È un ambiente che conosco. Ho studiato agronomia, ho frequentato alcuni stage e non li ho invidiati. Sono loro a provare invidia, quando vedono i super-ricchi acquistare le grandi proprietà. C’è davvero di che essere inaspriti».
Si sente urtato dall’onnipotenza dei super-ricchi, dal paleocapitalismo trionfante, dall’atteggiamento di chi crede di poter comprare il mondo intero, da tutto questo delirio?
«Urtato da questo delirio? Non mi sembra la parola giusta. Non vorrei accodarmi a una riprovazione morale di bassa lega. Rimproverare gli altri per la volgarità dei loro gusti non è il mio genere. Ma la verità è che tutto questo mi fa paura. Non vorrei veder crollare il sistema per ritrovarci rovinati, espulsi da casa nostra. Io non ho una pensione; quindi bisogna che l’economia resti in piedi. Anche in questo campo a volte ho l’impressione che la situazione sia fuori controllo. Per questo la Francia mi rassicura; perché occupa vecchi spazi e percorsi confortevoli. È estenuante e vano mantenere un’industria informatica quando si possono vendere abiti alla Russia, profumi alla Cina, e un’arte di vivere al mondo intero. La Francia vale moltissimo».
È singolare, in questo momento, questo suo amore per la Francia, questasuafiducia.
«Attenzione: io amo la letteratura più della Francia – anche se mi irrita molto la nostra perenne tendenza all’autosvalutazione. Certo, nessuno morirà più per la Francia. È ora di smetterla – lo era fin dai grandi imboscamenti del 1917– con quest’illusione. Devo dire, però, che mi piace immensamente sentir parlare francese. Amo anche il russo, o l’asprezza dello spagnolo, ma a orecchio, il francese è la lingua che preferisco. Vivo tra l’Irlanda e la Spagna, però finirò per andare ad abitare in un Paese francofono. Mi informerò sul Quebec».
Nel romanzo, Michel Houellebecq va a vivere nella casa di sua nonna, lontano da tutti.
«Sì, in un villaggio come se ne vedono molti, tanto ripulito e ben messo da assomigliare a un fondalino per una serie Tv più che a un antico borgo. Ma ha un suo fascino, e piace. Un russo che ho incontrato in un ristorante normalissimo, dove il servizio era curato, ma per nulla eccezionale, mi ha detto: “In Russia non avremo mai niente di simile”».
Lei pensa, come Voltaire, che per essere felici basta coltivare il proprio giardino?
«No, nient’affatto! Preferisco il suggerimento di Tocqueville, che raccomandava di interessarsi alle questioni locali e di prestare attenzione alla gente. Detto questo, Voltaire era già avanti con gli anni quando scrisse Candide. Può darsi che oltre a una certa soglia il giardinaggio sia davvero la cosa migliore».
È il motto dei suoi due personaggi, Jed Martin e Michel Houellebecq. Che si ritraggono dal mondo.
«Si allontanano, ma lavorano fino alla fine. Anche quando ha bisogno di morfina e non riesce più ad alimentarsi, Jed Martin rimane attivo. Quanto a Houellebecq, non pubblica più nulla, ma dopo la sua morte si scopre che non aveva mai scritto tanto. Non si fidi però del mio ritratto nel libro. Quell’immagine di artista tagliato fuori dal mondo è del tutto esagerata. Ho una gran quantità di nomi nella mia agenda, e non lascio passare anni interi prima di aprire le casse del mio trasloco. Ma una cosa è vera: i miei personaggi non credono più di poter essere felici nella loro vita. E non si aspettano di morire circondati dall’affetto dei loro cari», perché non lo meritano: non li hanno amati abbastanza».
Houellebecq muore giovane, assassinato, mentre Jed Martin arriva alla fine della sua vita vecchio, solo e infelice.
«No, non è infelice. Ma neppure felice. È sereno e in pace. E va già bene così».