Federico Rampini, il venerdì n.1175 24/9/2010, 24 settembre 2010
Senza dir niente e nessuno i cinesi hanno conquistato gli abissi (tremila metri sott’acqua)
NEW YORK. A voler essere trionfalisti, l’evento poteva meritare una copertura analoga a quella dei «primi passi sulla Luna»: quando l’astronauta americano Neil Armstrong, il 20 luglio 1969, piantò la bandiera a stelle e strisce sul nostro satellite naturale, con telecronaca diretta minuto per minuto in mondovisione. Ma i cinesi praticano la modestia confuciana: nella loro tradizione la vera forza è quella che viene dissimulata, non ostentata. E così, quando hanno piantato la loro bandiera in un luogo inesplorato quanto la Luna, non hanno voluto la diretta televisiva com’era accaduto per l’impresa storica dell’Apollo 11. Una videocamera c’era, ma le immagini sono rimaste segrete. Così come top secret è stata, per tre mesi, tutta l’operazione: la conquista cinese degli abissi sottomarini. È in fondo al Mar della Cina Meridionale che, all’inizio dell’estate, è avvenuto l’exploit. Tre scienziati oceanografi spediti su un sommergibile dal governo di Pechino, hanno letteralmente piantato una bandiera: rossa e con le stelle dorate. Il vessillo della Repubblica Popolare è stato conficcato in una delle fosse oceaniche più profonde, a più di tremila metri sotto la superficie delle acque. Solo in seguito il direttore dell’operazione, Liu Feng, ne ha fatto cenno sul quotidiano ufficiale in lingua inglese, il China Daily, definendola «una grande conquista». È a quel punto che è scattato l’allarme sulla sponda opposta dell’oceano, in America.
Ai dirigenti militari e civili della superpotenza Usa non è sfuggita l’importanza di quel gesto. La bandiera cinese in fondo agli oceani è qualcosa di più di un simbolo. È il segnale di una minaccia, non molto diverso dallo schiaffo che l’America si prese, nel 1957, quando l’Unione sovietica la superò nella corsa allo spazio grazie al satellite Sputnik. Stavolta la posta in gioco potrebbe essere perfino più importante. «I fondali degli oceani» avverte un’inchiesta del New York Times che condensa tutte le preoccupazioni americane «sono un giacimento di tesori che valgono migliaia di miliardi di dollari. E ora sappiamo che la Cina ha accesso per prima al 99,8 per cento di quei fondali». C’è di tutto, laggiù: dalle risorse naturali agli strumenti disseminati dall’uomo. In prima posizione, per l’interesse di un colosso che ha 1,3 miliardi di abitanti, ci sono i giacimenti sottomarini di petrolio e gas. Poi altri minerali preziosi. In seguito, chi potrà arrivare all’estremità più profonda avrà un accesso unico a migliaia di chilometri di cavi sottomarini usati per le telecomunicazioni: uno squarcio che si apre per le possibilità di spionaggio. Poi ci sono tante cose finite là sotto per sbaglio, non per questo meno interessanti o preziose: testate nucleari perdute da sottomarini militari, missili balistici affondati dopo i test sperimentali. «Quello della Cina» commenta Don Walsh, che è uno dei pionieri delle esplorazioni dei fondali oceanici insieme allo scomparso Jacques Cousteau, «è un piano deliberato, molto mirato».
L’allarme degli Stati Uniti è giustificato, quindi. Tanto più che loro, malgrado vantino con la US Navy una supremazia militare sui mari, a quelle profondità non sono ancora in grado di arrivare. Jiaolong: si chiama così, come il leggendario dragone marino della mitologia cinese, il sommergibile del «sorpasso». Un sommergibile, appunto, cosa diversa da un sottomarino. Più piccolo, legato a una nave-madre con cui comunica durante l’immersione, e capace di sopportare l’immensa pressione delle acque a quelle profondità.
Jiaolong: ecco il nome dello Sputnik del XXI secolo. L’unico prototipo in grado di tuffarsi fino a 7.000 metri di profondità. Prima dell’avvento di Jiaolong il record apparteneva a un sommergibile giapponese, lo Shinkai: 6.500 metri. I sommergibili americani, russi e francesi si fermano molto prima. Il fatto che la Cina sia passata in testa nella corsa all’esplorazione dei fondali oceanici, indica che le sue ambizioni ormai sono quelle di una vera superpotenza globale. In grado di perseguire obiettivi strategici in parallelo: militari ed economici. Così come la Repubblica Popolare ha avviato da anni la costruzione di una vera flotta di «acque profonde» (cioè una flotta militare capace di operazioni ad ampio raggio, in grado di proiettarsi su tutti i continenti), riesumando quelle aspirazioni da impero navale che abbandonò 500 anni fa, ecco che ora anche i fondali degli oceani rientrano nelle sue mire. È una gara con molti concorrenti. La Russia di Vladimir Putin, per esempio, è forse la più avanzata nell’esplorazione di un altro fondale marino, quello che sta sotto il
Polo Nord. È partita da Mosca la spedizione che, nell’estate del 2007, piantò la bandiera russa sotto l’Oceano Artico. Quell’impresa ricorda l’altra dimensione di questa sfida. Se Putin ha voluto essere il primo a «segnare» della sua presenza gli abissi sotto il Polo Nord è perché la Russia accampa delle pretese di sovranità territoriale su quasi la metà di quei fondali marini. Guarda caso, anche la Cina ha ambizioni simili. In tutti i mari che la circondano, la Repubblica Popolare contende il controllo sovrano su vari arcipelaghi a Giappone, Corea del Sud, Vietnam. Anche quando si tratta di isolotti sperduti e disabitati, quel che li rende preziosi non è la nuda roccia, ma l’esistenza di giacimenti petroliferi nelle vicinanze. Chi possiede l’isola automaticamente può accampare dei diritti sulle acque territoriali che la circondano: 50 miglia o 200 miglia a seconda delle giurisprudenze e delle interpretazioni della legge internazionale sui mari. Anche «occupare» i fondali fa parte delle grandi manovre per dilatare il controllo cinese sui mari. Con tutto quel che comporta per l’approvvigionamento di materie prime strategiche.
Un aspetto beffardo di questa sfida cinese è che, all’origine, è stata costruita con tecnologie made in Usa. Pechino avviò in gran segreto il suo programma di esplorazione sottomarina nel 2002. Tre anni dopo, quando ancora a Washington nessuno sospettava alcunché, la Repubblica Popolare riuscì a fare invitare cinque suoi pilotiscienziati oceanografi a Cape Cod, sulla costa del Massachusetts, perché ricevessero un addestramento. A Cape Cod, sotto la direzione della Woods Hole Oceanographic Institution, c’è il sommergibile americano Alvin, uno dei veterani delle esplorazioni nei fondali. Alvin può raggiungere solo i 4.500 metri di profondità, ma per alcuni anni è servito da palestra di allenamento per i cinesi. Inoltre, dal 2005, Pechino cominciò pazientemente a comprare tecnologie russe e americane, assemblandole con discrezione in Cina. Fino alla sorpresa finale. Anche in questo campo, l’allievo ha superato il maestro.
E l’America s’interroga ora su quali saranno le prossime tappe, nella «colonizzazione» cinese dei fondali sottomarini. Una cosa è certa, la sfida non va sottovalutata. Nascosto sotto la profondità degli oceani c’è un universo che finora per noi era rimasto inaccessibile come lo spazio.