Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  settembre 24 Venerdì calendario

L’UOMO CHE HA PRESO LA STORIA E L’HA FATTA DIVENTARE STORIA

[Intervista a Ken Follet]
LONDRA. A Trafalgar Square, sugli scalini di St. Martin-in-the-Fields, chiesa molto battuta dalle spie di La caduta dei giganti, il suo nuovo, fluviale romanzo, Ken Follett si mette in posa per il fotografo. Che ordina: di faccia, di profilo, sorridente, serio, mani in tasca, in piedi, seduto. E lui esegue, senza tema di sgualcirsi lo spezzato di sartoria che, si vede, gli piace assai. Paziente e disponibile come un novellino, non come uno seduto, oltre che sul gradino di una chiesa, su 26 romanzi venduti in 120 milioni di copie. Un professionista: dalla creazione alla promozione, qui non si trascura un dettaglio. Ha anche imparato a spalmarsi una discreta passata di fondotinta perché, a 61 anni, nonostante l’aura di soddisfatto benessere, un po’ di trucco aiuta il primo piano.
Provate a spostare questa scena a Roma, magari a piazza del Popolo. Un signore azzimato con codazzo di fotografo, assistente e compagnia bella: due minuti e il popolo starebbe a curiosare. A Londra niente, tutti impassibili. Danno segno di riconoscerlo solo due giovani turisti spagnoli. Dopo un bel po’, una vecchina molto british gli chiede l’autografo. Ma poi ecco che la notorietà sta per palesarsi: gli si avvicina un pachistano, questo sì che è un segno di fama planetaria. Beh, non proprio: gli domanda dove ferma il 25, il bus per Ilford, remoto suburbio multietnico. «Mi spiace, amico» risponde Follett «dei bus non so niente, prendo la metropolitana». Questo scrittore ricco sfondato e laburista, popolare nello stile e sfarzoso nella vita (con una moglie, ministro nel governo Brown, ribattezzata Queen Barbara per le sue note spese), va in metropolitana. «E vado anche a far la spesa.
Nessuno mi riconosce. Posso combinare cose terribili in incognito».
Per l’intervista su La caduta dei giganti, primo tomo – in uscita mondiale il 28 settembre – di una sconfinata trilogia intitolata The Century, siamo invece ospiti dell’Athenaeum, il suo prestigiosissimo club che, fra i soci viventi o trapassati, vanta 55 Nobel. Un luogo molto in tono con i personaggi aristocratici del romanzo. Un po’ meno con quelli proletari, ma visto che il century in questione è il XX, epoca di grandi rivolgimenti sociali, va a finire che gli ambienti si mischiano. I protagonisti della trilogia sono cinque dinastie di altrettanti Paesi, seguite nei loro intrecci per tre generazioni. La famiglia inglese e la tedesca hanno il sangue blu. La russa e la gallese, rosso proletario.
Poi c’è quella americana, inserita nelle alte sfere del Partito democratico. Su questi pilastri si snoda la storia del Novecento narrata da Follett, che nel primo volume copre Grande guerra e Rivoluzione russa, nel secondo Depressione e Seconda guerra mondiale e, nel terzo, Guerra fredda e caduta del Comunismo.
Ma non è che ha riscritto Il secolo breve di Eric Hobsbawm in chiave romanzesca?
«Per certi versi, quel libro è stato un punto di partenza, perché delimita il XX secolo dal 1914 al 1991: un’idea che si è rivelata molto utile quando cominciavo a organizzare il lavoro. Eric Hobsbawm è un grandissimo storico, lo conosco, sa? L’ho incontrato parecchie volte. L’ultima, è venuto a cena da me».
«Un altro storico, il mio amico e compagno di università Donald Sassoon, aveva scritto un librone, molto più lungo dei miei, sulla cultura degli europei dall’800 a oggi. Per festeggiarlo, ho organizzato una cena, cucinata da me, con i nostri compagni dell’University College: temo fossimo tutti uomini. Ho invitato Hobsbawm senza avvisare Donald, che è un suo grande ammiratore e gli ha anche dedicato il libro. E lui ha accettato. Anche se è molto vecchio, ormai ha 93 anni, è venuto. Con la sua aria fragile, i segni della paresi, ma il cervello di sempre. A Don avevo anticipato soltanto: “Avrai un ospite a sorpresa”. Infatti è rimasto molto sorpreso».
Potrebbe rimanere sorpreso anche il suo pubblico italiano: nella Grande guerra che racconta, l’Italia sembra non aver combattuto.
«Beh, il coinvolgimento dell’Italia non è rilevante nella storia».
Caporetto e il Piave sono punti sensibili della nostra memoria: omettendoli non rischia di urtare il patriottismo, se non il nazionalismo, dei suoi fedeli lettori italiani?
«Patriottismo e nazionalismo erano i temi forti dell’epoca in cui scoppiò la guerra. E i governi li usavano per mandare la gente a combattere: alcuni ci credevano, ma molti erano scettici e capivano quanto fossero utilizzati per manipolarli. Spero che questo libro racconti come andavano veramente le cose».
Gli editori dicono che The Century è la sua consacrazione d’autore globale, ma come le è venuto in mente di imbarcarsi nella narrazione del Novecento in tre volumi?
«Con Mondo senza fine, avevo avuto una risposta calorosissima da editori, librai e lettori di tutto il mondo, i fan mi chiedevano un sequel, anche se quello era già il sequel di I pilastri della Terra. Io rivolevo lo stesso affetto, lo stesso calore, ma non volevo rifare un altro romanzo medievale. E allora mi sono chiesto: cos’è che mi piacerebbe scrivere e che al pubblico piacerebbe leggere come o più di Mondo senza fine? Ho scelto il Novecento perché è così vicino, mio nonno era nell’esercito britannico, nel 1916. Questa è la nostra storia. Ma anche se lo scenario è la civiltà occidentale, gli eventi della guerra e della Rivoluzione russa coinvolgono il Giappone, la Cina, il mondo: la ricaduta è globale».
E la vecchia passione per il thriller e lo spionaggio? Qui gli agenti segreti ci sono, ma non sembrano le vecchie buone spie di una volta, anche psicologicamente.
«Ottimo, una spia così, non solo è una brava spia perché non si fa riconoscere, ma è anche una persona vera e non solo un ruolo. Poi, all’inizio del Novecento non c’erano gli agenti segreti alla James Bond pagati tutti i mesi dal governo. Erano spesso persone delle classi alte, abituate a viaggiare, con conoscenze internazionali, che in caso di necessità si prestavano. Riguardo al thriller, mi piace ancora molto, ma ha i suoi limiti: narra di qualcuno in pericolo e nessuno può restare in pericolo per più di qualche giorno, massimo un mese. Non s’è mai visto un thriller lungo un secolo. Il romanzo storico è più impegnativo ma dà maggiori soddisfazioni. La caduta dei giganti è stato il mio libro più difficile».
Per l’edizione mondadoriana di La caduta dei giganti, 1008 pagine, ci sono voluti quattro traduttori: lei quanto ci ha messo a scriverlo?
«Due anni e mezzo».
Di solito si prende un anno per le ricerche, stavolta c’è voluto di più?
«No, sono andato più veloce. Ho raccolto materiali solo per il primo volume e qualche appunto per il secondo. Ho aumentato i ritmi, sei giorni la settimana dalle 7 alle 5, perché non voglio far passare troppo tempo fra un libro e l’altro. Il terzo uscirà nel 2014. Sette anni per una trilogia vanno bene, di più no, c’è il rischio che la gente si dimentichi».
Di lei o dei personaggi?
«Di me. Ken chi? Ken chi?».
Quanti storici ha consultato?
«Otto. Un esperto di storia tedesca, uno di Rivoluzione russa, uno di storia britannica, uno di miniere di carbone gallesi, uno che sa tutto sulla Prima guerra mondiale. E così via».
La maggior difficoltà nel trasformare la Storia in una storia?
«Prendiamo tutto quel che avviene fra l’attentato di Sarajevo e lo scoppio della guerra: ero interessato al conto alla rovescia lanciato al mondo dall’Impero austro-ungarico, ma quello non è un romanzo. Volevo raccontare quella storia, però il romanzo doveva essere incentrato sul destino degli individui coinvolti. Era complicato narrare la vicenda diplomatica, che sentivo potenzialmente appassionante, senza sconfinare nel libro di storia. La soluzione è stata l’innamoramento fra due giovani aristocratici: lei inglese e lui tedesco. Sono informati su tutte le mosse diplomatiche, ma per loro non è una partita a scacchi, il finale di partita contempla la possibilità di sposarsi o no. Mentre la guerra si avvicina, non sono spaventati solo dall’eventualità della catastrofe, ma soprattutto dal rischio di essere separati, visto che i loro Paesi saranno nemici: se però succede qualcosa che sembra evitare la guerra, esultano. È la storia di due persone innamorate, la chiave è questa».
Qualche problema strutturale nel seguire figli e nipoti dei personaggi del primo volume nei successivi?
«Sono preoccupato per i nipoti, quelli del terzo volume: negli anni Ottanta saranno un po’ troppo giovani, bisogna che faccia sposare molto presto i protagonisti del secondo volume. Un altro problema è che devo raccontare storie internazionali, ma questa gente si deve pur incontrare, innamorare».
I nipoti potrebbero fare i cooperanti allo sviluppo: ambiente avventuroso e cosmopolita.
«Proprio quello che mi serve: motivi per cui la gente visita altri Paesi».
Questa opera ciclopica ha intenti più educativi degli altri
suoi libri?
«Il mio primo obiettivo è sempre intrattenere, però è vero, mi sento come un romanziere vittoriano che vuole aiutare i lettori a capire: voglio dar loro molte informazioni, anche alcune poco note, come quella dei finanziamenti tedeschi alla Rivoluzione russa».
E cosa vorrebbe che capissero della Prima guerra mondiale?
«In primo luogo perché c’è stata. Nessuno voleva che scoppiasse, ma ogni capo di Stato ha preso piccole decisioni che l’hanno provocata».
Torniamo al presente: come spiegherebbe ai suoi lettori la sconfitta dei laburisti alle elezioni?
«Purtroppo nella politica ci sono i cicli e in questo Paese dopo un po’ la gente si stufa di un partito al governo. Credo che la gente abbia sbagliato a votare per i conservatori, ma se è stato un errore lo si vedrà presto».
In quanto a errori, anche Tony Blair non ha scherzato.
«Non sarebbe mai dovuto entrare in guerra contro l’Iraq e non avrebbe dovuto dire quelle orribili bugie, ma in questi tredici anni il governo laburista ha fatto ottime cose. Io sono particolarmente coinvolto nell’insegnamento della lettura nelle scuole e in questo campo abbiamo fatto passi da giganti. Ci sono degli esami che i bambini qui sostengono a undici anni, beh la metà degli allievi prima non li superava, ora l’80 per cento li passa. Naturalmente, il problema era più sentito nei quartieri poveri, quindi questo è stato un intervento socialista».
E lei come concretizza il suo coinvolgimento nell’alfabetizzazione dei bambini?
«Sono stato nel consiglio d’istituto, e per un po’ anche direttore, in una scuola di Stevenage, il collegio elettorale di mia moglie: abbiamo rivoluzionato le tecniche d’insegnamento».
E andava a scuola tutti i giorni?
«Diciamo una volta la settimana».
Lei finanzia i laburisti, alfabetizza i bambini poveri, cambiò editore quando la Collins fu acquisita da Rupert Murdoch. Nessun problema a pubblicare in Italia con la casa editrice di Silvio Berlusconi?
«Ho sentimenti molto forti contro Murdoch: I pilastri della Terra doveva uscire con la Collins, appena seppi che arrivava passai da Macmillan. Però Berlusconi non mi fa lo stesso effetto».
In Italia c’è un dibattito molto acceso sul pubblicare o non pubblicare da Mondadori.
«Siamo seri, Berlusconi è molto buffo, se ne parla spesso in termini di macchietta, ma il vero problema in Italia è un altro: il fallimento della sinistra».