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 2010  settembre 25 Sabato calendario

NOI, CASTELLANI INGLESI NEL SALENTO CONTADINO

«Ci accomuna l’ amore per questa terra; io la racconto, mio fratello la coltiva». Edoardo Winspeare, regista di film come «Pizzica», «Sangue vivo», «Galantuomini», vive a Depressa, frazione di Tricase, nel cuore profondo di quel Salento che con le sue opere ha fatto conoscere e amare il tutto il mondo. Francesco invece ne esporta i sapori, ricavati dai terreni lasciati in eredità dal padre, il barone Riccardo: una distesa di ulivi e vigneti che verdeggiano nei campi tra Lecce e il Capo di Santa Maria Leuca. «Siamo stati i primi a imbottigliare vino in Salento», dice Francesco. Fino agli anni Sessanta il padre produceva uve adatte a vini da taglio, come in quasi tutta la Puglia. Uve pagate pochissimo. E il barone è costretto a chiudere la cantina fondata nel 1885 dal bisnonno Antonio, duca di Salve e prefetto del Regno presso la provincia di Lecce. L’ eredità dei terreni e dell’ antico castello, che sorge nel centro di Depressa, spettavano al primogenito Edoardo. Ma lui a vent’ anni aveva già la testa da un’ altra parte. «Avevo frequentato la scuola di cinema a Monaco di Baviera. Non volevo avere a che fare con l’ agricoltura. E non riuscivo a entrare nella parte del castellano», ricorda. Prende a girare per il mondo, dal Salento alle Ande, dove raggiunge i luoghi più impervi del Perù, in jeep e a cavallo e infine a piediper chilometri e chilometri, telecamera a spalla e registratore attaccato alla vita, dietro ai volontari dei Siervos de los pobres del Tercer Mundo. Il barone Riccardo, in là con gli anni dato che aveva procreato quasi sessantenne, capisce che quel primogenito artista rischiava di mandare in rovina le proprietà acquisite dal bisnonno Antonio sposando Emanuella Gallone, principessa di Tricase. Prega perciò Francesco, che nel frattempo si era sposato ed era andato a vivere da un’ altra parte, di ritornare e di occuparsi del castello e dei terreni. Francesco accetta. Lui la passione per la terra ce l’ ha nel sangue da sempre, da quando adolescente si era iscritto all’ istituto tecnico agrario, mentre Edoardo frequentava il liceo classico. E poi aveva seguito il corso per amministratore di aziende agricole negli Stati Uniti e un tirocinio in Australia per studiare i nuovi impianti di viti. Nel ’ 90 decide di far rinascere i vigneti, una quarantina di ettari tra negroamaro e primitivo, montepulciano e malvasia nera, sangiovese e garganega, aleatico e trebbiano. Prende come socio un bravo enologo e Riapre la cantina del bisnonno dotandola di macchinari modernissimi. «All’ inizio nessuno ci avrebbe scommesso», racconta. Oggi esporta bottiglie pregiate in America, Cina e Giappone. Per risparmiare sulle spese di manutenzione del castello, è andato ad abitare nella dependence che era stata del fattore; due camere nelle quali ha inglobato il garage e il pollaio, trasformandoli in salotto e stanza da pranzo. Intorno, il giardino segreto: un ettaro e mezzo chiuso da un muro alto quattro metri e pieno di alberi da frutta, piante aromatiche, pergolati di uva da tavola. I tronchi di limoni sono blu: «Erano stati colpiti da una malattia, per salvarli li ho spalmati di pasta caffaro, un anticrittogamico a base di rame. Erano belli, sembravano una installazione di land art, così ho deciso di ripetere il trattamento ogni anno», spiega Francesco. Edoardo si è trasferito a casa della moglie, un’ abitazione popolare e fascinosa, con ingresso sulla piazza e stanze che ruotano attorno a un cortile interno dove d’ estate si svolge la vita della famiglia, tra il lavatoio e i panni stesi, le corone di pomodorini appese al muro e la vite d’ uva fragola che si arrampica fin sul tetto a terrazza. Nel castello è rimasta a vivere la madre, Elisabetta, nata principessa di Liechtenstein, che fino a quando era vivo il barone riceveva qui Alberto e Paola, sovrani del Belgio, e la principessa Margaret d’ Inghilterra. Ora vi si conservano le memorie della famiglia Winspeare, di origine inglese e trapiantata nel Settecento a Napoli. Alle pareti, i ritratti degli antenati: tra questi da Davide Winspeare, che nel 1814 ottenne il titolo di barone da Gioacchino Murat per i meriti acquisti nel dirimere storie di abusi feudali, al fratello di lui, Roberto, colonnello nell’ armata russa, che nello stesso anno assediava Napoleone a Parigi. Fino al, la prozia Giulietta Guicciardi, allieva di Beethoven per la quale il compositore innamorato scrisse la famosa «Sonata al chiaro di luna» (lei lo respinse, sposò il conte di Gallenberg e si trasferì a Napoli). Edoardo e Francesco vi hanno trascorso un’ infanzia felice. Edoardo: «Ricordo soprattutto il fattore, le tabacchine, i 350 coloni. Fino ai dieci anni abbiamo vissuto con loro più che con i genitori. Parlavamo in dialetto, in italiano con mio padre, in francese con mia madre. Alla fine mischiavamo francese e dialetto in un idioma incomprensibile, perciò ci hanno mandato a studiare a Firenze». Da bambini venivano spediti in campagna a lavorare insieme ai contadini. «Va da sé che eravamo spinti con decisione dai genitori, ma mai costretti. Ho vissuto, anche se dalla parte del cosiddetto "patruno", gli ultimi sprazzi di quel mondo rurale salentino così affascinante e ricco di cultura, un’ esperienza che mi ha marcato per tutta la vita. Ricordo che soffrivo molto se mi chiamavano don Edoardo e baroncino». Sono nati da queste memorie i suoi film sulla taranta. «Mio padre organizzava ogni anno una grande festa per la fine della vendemmia, invitando una banda di trenta elementi e naturalmente tutto il paese. Quando la banda aveva finito c’ erano sempre due, tre persone con tamburello e armonica a bocca, che attaccavano con una "pizzica". I più bravi a ballare erano i contadini anziani. Si trasformavano: gli uomini eleganti e appassionati, le donne che improvvisamente diventavano leggere come nuvole». Per ricordare quei tempi hanno fatto forgiare dal fabbro una bandiera in latta con i colori del casato, blu e oro, e l’ hanno issata sulla torre più alta. «Finché è stato vivo nostro padre - dice Francesco - c’ era una bandiera di stoffa, che veniva tirata giù quando lui era in viaggio e alzata quando era al castello». Su quella torre i fratelli salgono per vedere i due mari, Ionio e Adriatico, che disegnano arabeschi incontrandosi a largo di Leuca. Nelle giornate di tramontana appaiono dall’ acqua, vicinissime, le montagne dell’ Albania e le coste di Corfù. Nel libro degli ospiti ha lasciato una frase anche Paolo Villaggio: «Se potessi scegliere, vorrei morire qui. Sotto questo pergolato, in una giornata di sole».
Lauretta Colonnelli