Pilar Saramago, La Stampa 26/9/2010, pagina 36, 26 settembre 2010
Saramago mio marito occhi pieni di Portogallo - José Saramago scriveva libri e apriva porte attraverso le quali siamo approdati a una cultura, ad altri scrittori, a un modo di intendere la vita, a un Paese
Saramago mio marito occhi pieni di Portogallo - José Saramago scriveva libri e apriva porte attraverso le quali siamo approdati a una cultura, ad altri scrittori, a un modo di intendere la vita, a un Paese. Abbiamo saputo, un giorno, che il Portogallo ha le dimensioni giuste affinché una donna, Blimunda, lo percorra a piedi per sette volte cercando il proprio uomo che finirà con l’incontrare qualche minuto prima che la Santa Inquisizione lo bruci vivo per la sua terribile colpa: aver contribuito a coagulare le volontà degli uomini e, così, a volare lungo i cieli di Lisbona, Mafra, la Sierra di Montejunto e i mari di Ericeira in un viaggio unico, perché un frate colto, un uomo mancino e una donna con poteri straordinari hanno unito pensiero e decisione, valori umani ai quali non hanno rinunciato neppure davanti alla minaccia di dover pagare un prezzo altissimo, quello della vita. Erano, questi, una Trinità laica, Blimunda, Baldassarre e Bartolomeo, che tra sogni e angustie hanno sentito suonare Domenico Scarlatti mentre, oltre quella musica, lavoratori reclutati con la forza dall’esercito di Don Joao V costruivano un convento-palazzo per celebrare la nascita di Maria Barbara, principessa di Braganza che sarebbe diventata, poi, regina di Spagna senza sapere mai quanto fosse costato il primo regalo da lei ricevuto: questa costruzione lungo la quale, oggi, i turisti passeggiano portando sotto il braccio Il memoriale del convento. E attraverso questo libro comprendono meglio l’architettura e la natura umana. Intimamente meglio. I paesaggi muoiono perché li ammazzano, non perché si suicidano. Il fiume Almonda, che passa per Azinhaga, ha visto nuotare corpi giovani e nelle sue acque sono state lavate migliaia di lenzuola che dopo, al calare del buio, profumavano di giunco, il profumo di pulito della biancheria dei poveri. Oggi nessuno potrebbe fare il bagno in queste acque, il filosofo dovrebbe tacere e neppure per una sola volta la gente potrebbe godere dell’acqua tiepida d’un fiume di cui conosce tutti gli angoli ed entrare nel quale è come entrare in un corpo amato. Hanno tagliato gli ulivi, hanno contaminato il paesaggio, sono rimasti abitanti senza eredi, le strade che non sono più di terra, il ricordo di nonni imponenti che allevavano maiali, le stelle che dicono siano le stesse o, magari, sono il riflesso di quel che non c’è più. Azinhaga, Ribatejo, cavalli in lontananza, in casa un letto dipinto, un camino, qualche sedia, un tavolo, un Portogallo intimo e prezioso, descritto nelle Piccole memorie, un Paese di ricordi che unisce gli uni agli altri nelle stesse emozioni e negli stessi sconforti. Così eravamo, non sappiamo né quel che abbiamo guadagnato né quel che abbiamo perduto. Il viaggio non finisce mai. A Orce, provincia di Granada, hanno trovato l’uomo più vecchio della penisola. Saramago gli diede un nome, lo chiamò Pedro Orce e andò a vedere le strade di questa regione alcuni mesi prima di farle sue per sempre. Entrò in grotte che sono case, parlò con pastori che sono nostri contemporanei sebbene abbiamo modi di vivere che si perdono nel tempo, così duri, così antichi, s’imbatté in tre uomini e due donne, persone libere che avevano vissuto inimmaginabili avventure e, più tardi, scrisse che non esiste un romanzo che non abbia parole in eccesso mentre ad altri magari manca un capitolo. E così scrisse l’epilogo della Zattera di pietra, altro viaggio nel viaggio per vedere come nascono i fiumi, qui il Guadalquivir, qui il Castril, e finire dicendo, davanti alle acque limpide e veloci del fiume Castril, che, guardandole, «il tempo assume un altro senso, come un istante di eternità nell’atroce brevità della vita umana. La nostra». Dice Saramago che in Portogallo si entra attraverso Camões. Anche attraverso Eça de Queiroz, Teixeira del Pascoaes, Camilo Castelo Branco, Sophia de Mello Breyner, attraverso la luminosa costellazione dei poeti, attraverso Fernando Pessoa e la sua stupenda complessità. Anni fa José Donoso scrisse che se Lisbona fosse scomparsa, ma fosse rimasta una copia dell’Anno della morte di Ricardo Reis, lo spirito della città sarebbe stato salvo. La città che guarda se stessa, sfiduciata, con una ragnatela di viuzze che s’intersecano, per andare, a volte per tornare, rotaie di tram, strade tortuose, l’ombra d’un desiderio, il silenzio grave, la monotonia delle auto, un odore di casa, la donna che cammina sicura, quella che guarda di lontano, impigliata nelle convenzioni. E un bacio, e un incontro tra due uomini, quello che non esiste perché è morto e quello che non può esistere perché era un’invenzione. Fernando Pessoa, Ricardo Reis, la saggezza di chi s’accontenta di contemplare il mondo smentita in oltre quattrocento pagine, la saggezza di chi esprime la tristezza umana raccontata in oltre quattrocento pagine. «Qui, dove finisce il mare e incomincia la terra», «Qui, dove il mare è finito e la terra attende». Quando venne pubblicato in Spagna Viaggio in Portogallo, Eduardo Sotillos, buon conoscitore del Paese confinante, espresse la sua sorpresa di fronte al numero di chiese descritto da Saramago. Saramago se ne era andato dal suo Paese per tornarci con occhi nuovi. Lo percorse da Nord a Sud, da Est a Ovest. Prese strade secondarie, sentieri, tutte le viuzze che lo portassero nel cuore delle cose. Decise di descrivere pietre invece che paesaggi, villaggi invece che palazzi, il quadro di uno scorcio invece del gran dipinto mille volte riprodotto per la sua innegabile bellezza. Si soffermò sulla Pietà di Belmonte e sul palio di Citadelhe, così amorevolmente protetto, segnalò Sintra, il Palazzo de la Pena, ma indugiò a descrivere un certo modo di impastare il pane e di preparare il cibo, atti tanto necessari per un mondo giusto. Viaggio in Portogallo non è una guida, è un testamento, una maniera di guardare e di vedere. Di scoprire l’impronta della mano che ha costruito il monumento, il respiro delle pietre, l’estremo battito d’una civiltà che finisce e nessuno può dire se finisca bene. Qualche mese prima di morire, Saramago ha visitato il Portogallo, una volta di più suo Paese, Constância, Camões, il Tago, Castelo Novo, il Rio Coa, gli ulivi, le viti, Figueira de Castelo Rodrigo, la storia. Saramago è morto con gli occhi pieni d’un paese che non è immenso, ma che a lui ha riempito la vita e molti libri. Il Portogallo era il mondo a partire dal quale si poneva tante domande e sul quale cercava di trovare qualche risposta. Ha viaggiato, diceva, attraverso il Portogallo seguendo la rotta di un elefante che, per un’assurda decisione del re, dovette arrivare sino a Vienna. E Saramago, come l’elefante Salomon, è partito da Belén verso l’interno con l’emozione di chi conosce qualcosa della condizione umana ed è disposto a farsi sorprendere. A Castelo Novo ha letto ad alta voce alcune righe scritte trent’anni prima: «Castelo Novo è uno dei più commoventi ricordi del viaggiatore: che egli torni, che non torni più, che eviti di tornare, solo perché ci sono esperienze che non si ripetono». Saramago è tornato e, forse, è ancora lì: in fin dei conti, come dice l’epilogo del Viaggio dell’elefante, «finiamo sempre per tornare dove ci aspettano». In Portogallo.