MICHELE BRAMBILLA, La Stampa 26/9/2010, pagina 14, 26 settembre 2010
Intervista a Monicelli - Il re della commedia all’italiana ha 95 anni e provoca subito invidia in chi lo incontra: ne dimostra almeno venti di meno
Intervista a Monicelli - Il re della commedia all’italiana ha 95 anni e provoca subito invidia in chi lo incontra: ne dimostra almeno venti di meno. Conversa con una lucidità e una brillantezza che sembrano appartenere a un’altra dimensione, forse quella dell’immortalità riservata ai grandi film. «I soliti ignoti», «La grande guerra», «Un borghese piccolo piccolo», «Il marchese del Grillo»: Mario Monicelli ha diretto più di sessanta film, i primi che ti vengono in mente fanno già rivivere sorrisi ed emozioni. In uno dei suoi capolavori, «Amici miei», c’è un singolare pranzo della domenica: quello in cui l’architetto Rambaldo Melandri-Gastone Moschin invita gli amici e persino il professor Alfeo Sassaroli-Adolfo Celi, al quale ha appena portato via la moglie Donatella. Il pranzo della domenica è stato un rito quasi sacro nella storia della borghesia italiana: Monicelli non si stupisce che sia destinato a scomparire. Perché, maestro? «Perché era un rito familiare, e la famiglia non esiste più. E’ scomparsa nelle forme, nella sostanza, nei modi e perfino nelle intenzioni. E’ diventata allargata, multipla… Perché mai stupirsi della partita di calcio a mezzogiorno della domenica? Non credo che saranno in molti a dispiacersi della scomparsa del rito del pranzo domenicale. Prima del pranzo era già stata soppressa la famiglia». Ne parla con molta amarezza. «Sì, perché la scomparsa della famiglia è un fatto molto negativo. E’ diseducativo per le generazioni che verranno ed è dissolutorio per l’Italia. Sfasciandosi la famiglia si sfasciano tutti i rapporti sociali». Quali ricordi ha dei suoi pranzi della domenica in famiglia? «Erano momenti molto belli ma per certi aspetti anche terrorizzanti: perché c’era tutto un rituale che andava rispettato. Bisognava stare, come posso dire, guardinghi. Molto più che gli altri giorni: la domenica si era più rigorosi. Ma si mangiava meglio». Che cosa trovava sulla sua tavola? «C’era il brodo, che a noi bambini non piaceva perché scottava, e c’era il pollo. Poi c’erano le pasterelle che papà comprava in pasticceria. La mia famiglia era abbastanza povera. Il pranzo della domenica rappresentava un momento di benessere, di pseudo ricchezza. Ci confortava». Non è più così, vero? «Certo che non è più così. Adesso si pretende il benessere sempre e dappertutto, nei pranzi di ogni giorno e in ogni aspetto della vita, disordinatamente e direi anche svogliatamente. Oggi le pasterelle sono dovute, non un di più. Oggi il di più è la vacanza esotica». C’era una disciplina, nel rito del pranzo domenicale? «La mamma portava la zuppiera e faceva le parti. C’era una razionalizzazione delle porzioni e non si poteva mai lasciare il piatto con degli avanzi. Ognuno doveva chiedere una quantità e se si sbagliava era peggio per lui, non poteva né avanzare né chiedere ancora. Anche tutto questo s’è ormai dissolto». Immagini come girerebbe la scena di un pranzo della domenica con partita di calcio. «Ah, certo, con i maschi che guardano la televisione e le donne per conto loro. Nessuno che parla più. Ma purtroppo è una scena che si può girare anche senza partita in tv perché gliel’ho detto, la famiglia è già distrutta. Quando ero ragazzo a mezzogiorno e mezzo bisognava essere a tavola e guai a chi non c’era. Il padre si arrabbiava. Adesso ciascuno arriva quando vuole, si mangia aprendo il frigorifero, ognuno prende quello che gli aggrada». Ricorda un pranzo cinematografico che le è piaciuto? «L’ultimo è stato Pranzo di ferragosto, di Gianni Di Gregorio, un paio di anni fa. Queste vecchiette che mangiano insieme a ferragosto… Dei film che ho visto di recente, è l’unico che mi ha fatto un po’ sorridere».