Andrea Tarquini, Affari & Finanza 27/9/2010, 27 settembre 2010
A BERLINO INTERESSA IL PRESIDIO SUGLI INVESTIMENTI IN EST EUROPA
Per il futuro di Unicredit, la pista tedesca resta tutta aperta: aperta a ogni variabile e a ogni svolta imprevista. La caduta di Profumo è stata accolta ufficialmente con allarme e parziale sorpresa, le chances del presidente ad interim, il bavarese Dieter Rampl, vengono analizzate qui con grande cautela. Tentativi di scalate dirette dei gruppi tedeschi a UnicreditHvb sono giudicate difficili, anche perché non si capisce chi avrebbe a disposizione la cassa di guerra necessaria. Semmai il sistemapaese Germania può cercare di usare al massimo l’influenza dei suoi uomini nel consiglio di amministrazione. Ma resta da vedere se questo basterà contro la levata di scudi di Bossi e della Lega e contro quella che qui appare, come sempre, l’imprevedibilità temuta della politica italiana.
Lo sfondo generale, la strategia sistemica della Germania, resta quella che è: conquistare il massimo possibile e oltre di posizioni di forza con acquisizioni e partecipazioni nell’economia europea. Non a caso l’altro giorno lo stesso ministro delle Finanze federale, Wolfgang Schaeuble, ha sottolineato come "nessun altro paese trae dall’euro vantaggi tanto grandi come la Germania". Competitività da global player, moderazione salariale e conflittualità ridotta all’interno, alto livello industriale, produttività asiatica, sono le spalle robuste del sistemapaese. Ma quando parliamo di banche, il discorso cambia. La stagione Profumo, conclusasi pochi giorni fa, è stata per il sistema bancario tedesco una prova del fuoco. Cui la controllata tedesca di Unicredit, Hvb (Hypovereinsbank) ha retto, perché la razionalizzazione e il taglio di esuberi e costi, cui Rampl spalleggiato dai sindacati si era all’inizio opposto scontrandosi con Profumo, alla fine è passata. E ha regalato a Hvb, piegatasi alla strategia della casa madre italiana, un aumento degli utili nel primo semestre dell’anno molto più cospicuo e lusinghiero di quello di Unicredit stessa.
Nel primo semestre 2010 infatti, Hvb ha quasi triplicato gli utili lordi, portandoli a 1,1 miliardi di euro. Merito in gran parte dei successi conseguiti con Unicredit a fianco nell’investment banking, mentre gli affari con la piccola clientela non vanno un granché: appena 6 milioni di euro di utili. E il fallimento del tentativo di rilevare la rete di filiali in Germania della svedese Seb (la rete se l’è poi aggiudicata la spagnola Santander) ha influito negativamente sul risultato e sulle immagini. Resta che l’obiettivo forse troppo ambizioso (dicono a Francoforte)di Hvb è di arrivare a un utile lordo di 1,26 miliardi di euro per l’intero anno. "Ma ci sono diversi motivi di guardare alle prospettive del secondo trimestre con un punto interrogativo in mente", afferma lo stesso numero uno di Hvb in Germania, Theodor Weimer.
Certo, Unicredit può essere interessante, anzi quasi un’occasione irripetibile per il sistema bancario tedesco, per globalizzarsi e sprovincializzarsi come con ritardo e tardiva tenacia ha cominciato a fare. Anche perché la fortissima presenza dell’istituto italiano nell’Europa centrale e centroorientale e in Russia starebbe a pennello ad alcuni dei molti obiettivi strategici di espansione dell’industria tedesca e del sistemapaese Germania. Ma dai sogni alla realtà il passo è lungo. Da un lato, certo, i tedeschi non hanno solo Rampl al vertice di Unicredit. Contano su una pattuglia agguerrita di cavalli di razza: Manfred Bischoff, un leader dell’industria aerospaziale tedesca che insieme ai britannici sfida Usa Cina e Russia, e che siede nei consigli di sorveglianza di Daimler, di Voith e di Fraport, l’aggressiva società proprietaria dell’aeroporto di Francoforte. O Theo Waigel, oggi grande consulente finanziario e presente in consigli di sorveglianza di diverse aziende tedesche, ma che fu soprattutto, come ministro delle Finanze del cancelliere Helmut Kohl, l’artefice della riunificazione monetaria tra la Repubblica federale e la disciolta ‘Ddr’, e poi l’architetto e l’esecutore del passaggio dal DMark all’euro.
Grandi nomi, passati illustri. Ma basteranno per aumentare significativamente il peso specifico decisionale dei tedeschi e del sistemapaese Germania in Unicredit, come Bossi teme? "Tutto è possibile e nulla è probabile", come si diceva in Spagna attorno ai tempi della fine della dittatura. Gli ostacoli e gli handicap dei tedeschi in ogni eventuale corsa a Unicredit comunque sono molti.
Gli addetti ai lavori lo sanno da anni, ma è sempre bene ricordarlo. Il sistema bancario, molto meno avanzato, consolidato e razionalizzato di quello di altri paesi europei Italia inclusa, resta il tallone d’Achille, o la Cenerentola, dell’ipercompetitiva locomotiva Germania. Mentre le grandi industrie, i centri di ricerca, l’establishment politico, raccolgono successi e primati e conquistano teste di ponte ovunque nel mondo, il sistema bancario tedesco resta quello del dopoguerra. Basato su tre pilastri troppo poco globalizzati e troppo deboli, e infatti insufficienti a sostenere l’industria global player del made in Germany. I tre pilastri sono le grandi banche d’affari, le banche semipubbliche controllate dai 16 Stati della federazione, e le casse di risparmio. Nessuno dei tre pilastri versa oggi in buona salute. Vediamo perché:
Primo, i grandi istituti. Deutsche Bank è l’unico ad avere una vera statura di global player, e non a caso Josef ‘Joe’ Ackermann (ad di Deutsche e consigliere ufficioso di Angela Merkel) lavora spesso più a Londra che non a Francoforte con il suo board. Deutsche Bank si espande ovunque, ha lanciato un aumento di capitale (il più grande della sua storia) di 10,2 miliardi di euro per completare la presa in mano di Postbank. Il gioco vale la candela sul mercato interno, perché Postabank regalerà a Deutsche 14 milioni di clienti retail. Ma l’aumento di capitale, avvertiva l’altro giorno la Frankfurter Allgemeine, porterà a perdite nel trimestre incorso, e le quotazioni dell’azione Deutsche Bank in Borsa già ne soffrono.
Se Atene piange, Sparta non ride, tanto per rovesciare il proverbio. Il numero due tedesco, Commerzbank, deve ancora digerire l’acquisizione di Dresdner, e nel momento più pesante della crisi finanziaria internazionale è stata salvata con un intervento pubblico di 18,2 miliardi di euro che di fatto l’ha in parte statalizzata. Adesso il governo Merkel, come corollario della supermanovra da 80 miliardi di euro con cui sta raddrizzando i conti pubblici e aiutando la forte ripresa tedesca, prepara una legge di exit strategy per liberarsi di quel peso.
Restano le banche regionali. Westdeutsche Landesbank, del NordrenoWestfalia, e la bavarese Bayerische Landesbank, trattano per una fusione. L’idea è mal comune mezzo gaudio: il salvataggio di Westdeutsche è costato oltre 3,2 miliardi di euro al contribuente. Quello di BayernLB forse una decina. La Commissione europea preme per un cambio di proprietà in nome delle norme antisovvenzioni e per la libera concorrenza, le autorità politiche tedesche hanno fretta di disfarsi del fardello. Ma sulle chances di successo del progetto di fusione, il primo a nutrire dubbi è colui che avrebbe più interesse a una sua riuscita, cioè il commissario europeo alla libera concorrenza, Joaquin Almunia. Sul fronte delle casse di risparmio infine nessuno prevede svolte di crescita e consolidamento significative a breve.
Il cerchio dunque si chiude, torniamo all’inizio del racconto. La partita tedesca a Unicredit resta aperta. Forse Bossi si preoccupa troppo, forse i tedeschi hanno strategie segrete o assi segreti nella manica. Ma non appaiono affatto così forti come sarebbe necessario. Ben altra forza hanno avuto Lufthansa quando ha acquisito compagnie aeree a raffica, Siemens con tutta la sua espansione globale, Bmw rilevando Rolls Royce. E infine ma non ultimo pesa su Berlino l’enigma di fondo, come notava un editoriale di Tobias Piller sulla Frankfurter: vale la pena di assumersi all’infinito le fatiche di Ercole che Rampl affronta a Unicredit, e di esporsi così alle turbolenze della politica italiana, che non promettono certo il meglio per una solida, sostenibile leadership di una grande banca europea?