SIMONETTA FIORI, la Repubblica 27/9/2010, 27 settembre 2010
CORRADO STAJANO - RACCONTI E PASSIONI D´UNO SCRITTORE CIVILE
«Italo Pietra, grande direttore del Giorno, aveva l´abitudine di tracciare una linea sul foglio di carta. "Vedi", mi diceva, "io posso andare da qui a qui, non oltre". Era diretto, senza ambiguità». A Corrado Stajano, che venerdì scorso ha compiuto ottant´anni, è sempre piaciuto andare oltre la linea, travasando nei libri quel che non poteva scrivere sui giornali. Dall´esordio con Il sovversivo, la storia di Franco Serantini massacrato dalla polizia a Pisa nel 1972, fino a La città degli untori, sulla peste morale che contagia Milano, ha raccontato la società italiana e i suoi infingimenti, una democrazia incompiuta spesso avvolta dalle tenebre. Scrittore civile è la qualifica che più gli si addice, narratore ribelle di vite ribelli.
«In realtà ho sempre provato invidia per le biografie degli scrittori americani di una volta: boxeur, taxi-driver, cacciatore di balene. Io ho fatto solo la comparsa nel Cappotto di Lattuada, attore in Aprile di Nanni Moretti, alpinista di ghiacciai», dice con quella sua faccia che sarebbe piaciuta a Truffaut.
Figlio di un generale dell´esercito, per metà lombardo per metà siciliano, nella politica inciampò quasi per caso, nutrendo al principio ambizioni letterarie. «Abitavo a Milano in via Pacini dove aveva casa Elio Vittorini. Un giorno ebbi l´impudenza di bussare alla sua porta e così cominciai a lavorare per i Gettoni, la famosa collana einaudiana che pubblicò Calvino, la Ortese, Rigoni Stern. Per primo ebbi tra le mani Il diario di un giudice di Dante Troisi, compresi subito che era uno scrittore. Dopo la pubblicazione, trovai il libro trasformato. Bellissimo. Oggi liquidano Vittorini come un castratore, ma non sanno cosa dicono».
Ci pensò "il rullo dispettoso della storia" a fargli capire cosa dovesse diventare. Per Stajano non ci fu il Sessantotto ma il Sessantasette. Il colpo di Stato dei colonnelli lo sorprese in Grecia con la moglie Giovanna Borgese, sapiente fotografa e figlia d´una famiglia illustre (Giuseppe Borgese il nonno paterno, Camilla e Antonio Cederna gli zii materni). «Eravamo in vacanza ad Atene, ma in piazza della Costituzione al posto dei pullman trovammo i carri armati. Per me significava il ritorno del fascismo, proprio nel luogo dov´era nata la democrazia: il risveglio brusco da una sorta di letargo».
Due anni più tardi, arrivarono le bombe di Milano. «Ero su un taxi quando l´autista mi disse che era scoppiata una caldaia in piazza Fontana. Gli chiesi di portarmi là. Sono stato tra i primi a entrare nella banca, ho visto la macelleria, le teste che rotolavano, le braccia staccate dai corpi. Compresi cos´è la tragedia, come quando da bambino avevo visto i soldati maciullati dalla guerra. Poi mi buttarono fuori e cominciò l´ufficialità di sindaci e cardinali». Una stagione oscura, che però vide nascere il giornalismo democratico. «I giornalisti impararono a fare i giornalisti. E questori e commissari erano impressionati perché i cronisti cominciavano a fare le domande, non accontentandosi più delle veline. Noi stavamo alla larga dai servizi, i loro uomini pullulavano ovunque, pronti a imboccarci. Li si riconosceva a distanza, come ne avrei visti tanti ai funerali di Falcone».
Sfogliando i suoi libri, sembra che l´Italia non sia mai cambiata, e che gli italiani siano sempre gli stessi. Un paese irredimibile, senza catarsi. «L´Italia che fa convivere il carnevale con la tragedia», suggerisce lui, citando le parole di Cesare Garboli. Ma c´è anche l´Italia dei suoi "eroi borghesi", degli Ambrosoli, l´avvocato ucciso da un killer inviato dal finanziere Sindona, e di quelli come lui che "se la vanno a cercare". «Giulio Andreotti ha detto quel che ha sempre pensato, non essendoci questa volta nessuno che lo contenesse. Le sue responsabilità sono enormi, e ora dice la verità. Sette volte presidente del Consiglio, che spavento!». L´Italia di oggi non lo mette di buon umore. «Ci vorrebbe un Balzac, al solito, o forse il Carlo Emilio Gadda dell´Eros e Priapo a raccontare questi tempi. Si ha una sensazione di passività. Provo vergogna e impotenza insieme. La crisi antropologica intuita da Pasolini decenni fa mi sembra il sigillo di quest´epoca».
Senza il suo Africo, la storia di un paese calabrese devastato dalla mafia politica, probabilmente non ci sarebbe stato Gomorra di Saviano. «Con Giulio Einaudi nell´aprile del 1979 finimmo sotto processo, su querela del parroco. Fummo assolti con una sentenza che farà storia: per la prima volta si stabiliva la legittimità d´indagine nelle zone più inquinate della società italiana». È persuaso che nulla sia più romanzesco dei fatti che accadono. Basta saperli raccontare. Stajano lo fa con uno stile inconfondibile, inventore di un genere che mescola narrazione, inchiesta, analisi saggistica, documento, memoria.
«Uso tutti gli strumenti che mi servono. Sono un artigiano, un pastaio», si racconta nel suo ultimo irriverente zibaldone, L´Italia ferita (edizioni Cinemazero). Se gli domandi dei giornalisti oggi, preferisce annotare la risposta su un foglietto. «Detesto il giornalismo dell´io. Detesto la scrittura e le carriere costruite sull´ambiguità. Detesto la retorica dei giornalisti con la valigia in mano, pronti a partire. Gli scoop, in genere, sono cattive azioni. Io ho fatto il giornalista per raccontare i fatti come sono, capire e farli capire».
Dimettersi è tra le cose che gli riescono più naturali: dai giornali, dalle case editrici, dalle amicizie da cui si sente tradito. Con Carlo Ginzburg fu il primo a lasciare l´Einaudi, nel 1994, all´arrivo di Berlusconi. «Piuttosto scriverei sui muri», confessò su questo giornale. La querelle recente viene liquidata con un sorriso mite. «Ho detto e fatto quel che dovevo sedici anni fa: era già tutto chiaro». Lo Struzzo è stato un grande amore, a lungo consulente e frequentatore dei mitici mercoledì. «Giulio Einaudi sarà stato anche un uomo crudele, ma quale grande passione aveva! Adesso buona parte degli editori sembrano dei contabili, gente che fa i conti e basta». Sette anni fa si dimise dal Corriere della Sera, in solidarietà con il direttore allontanato perché non gradito a Palazzo Chigi. Gesto considerato irrituale, forse un po´ folle, ma quando Ferruccio de Bortoli è tornato alla guida di via Solferino l´ha nuovamente chiamato a collaborare.
Oggi Stajano - l´eterno irregolare, eretico e disobbediente come i suoi «maestri e infedeli» dell´altra Italia - fa incetta di premi (dal Viareggio al Bagutta), scrive su un grande quotidiano, è celebrato nei festival letterari. «Sì, forse una contraddizione di questo mondo. Ma mi si vuole privare anche di questi piccoli onori?». Piccoli e grandi tributi per una vita oltre la linea. Ma poi con Italo Pietra come andò a finire? «Sono diventato suo amico, ma solo quando non contava più niente».