Francesco Battistini, Corriere della Sera 26/09/2010, 26 settembre 2010
LETTERE, APPUNTI E CORREZIONI: I BAULI SEGRETI DI KAFKA
«Non è una fortuna: è un tesoro». Chi quest’ estate ha aperto i dieci forzieri coi manoscritti di Kafka, sei in una banca di Tel Aviv e quattro in un caveau dell’ Ubs di Zurigo, a bocca aperta ora confida: «Non è immaginabile quel che c’ è lì dentro. Centinaia di documenti. Lettere che Kafka scriveva a Thomas Mann e ad Arthur Schnitzler, a Stefan Zweig, a Jaroslav Hasek, a scrittori di tutt’ Europa. Un elenco infinito. È come se la gente, a quei tempi, non facesse che scrivere...». C’ è di tutto, lascia ora filtrare un giornale israeliano. Inediti da catalogare con pazienza: il block notes che lo scrittore usava per imparare l’ ebraico (come si dice funerale? Come si scrive stupidità?), e poi appunti di vita quotidiana, il manoscritto del racconto Preparativi di nozze in campagna, la famosa Lettera al Padre, note e correzioni a margine del Castello, un promemoria per Riccardo e Samuele (romanzo mai finito), pagine di riflessioni indirizzate a Kurt Tucholsky e a Franz Werfel... «Una cosa si capisce: quando potremo leggere quelle carte, avremo recuperato solo una piccola parte d’ una montagna di parole perdute per sempre». Kafka bruciò il novanta per cento della sua produzione letteraria originale, ricordava ieri il «New York Times». Di quel che resta, due terzi sono a Oxford. E l’ ultimo terzo sta in quelle casseforti: manoscritti che da quarant’ anni sono al centro di un’ interminabile contesa cultural-diplomatica fra Israele e la Germania, d’ una sfinente sfida legale tra avvocati di eredi, privati e di fondazioni pubbliche. Da una parte, chi considera Kafka uno scrittore soprattutto ebreo e vorrebbe che tutto quel materiale restasse alla Biblioteca nazionale di Gerusalemme; dall’ altra chi vorrebbe riavere gli originali nelle biblioteche tedesche, lingua in cui peraltro il boemo austroungarico Franz scriveva. Mai s’ era visto un conflitto simile fra istituzioni culturali dei due Paesi. Conflitto che scoppiò nel 1973, all’ aeroporto Ben Gurion, quando una mite signora fu bloccata alla dogana israeliana con valigie piene di carte, destinazione Germania: era Esther Hoffe, segretaria e amante dello scrittore Max Brod morto quattro anni prima, intimo di Kafka. Sionista, nel ’ 39 Brod era scappato dai nazisti e a Tel Aviv - venendo meno alle volontà dell’ amico Franz che avrebbe voluto fossero bruciati - s’ era portato quei manoscritti, La metamorfosi e Il castello compresi, per regalarli infine all’ amata assieme alle chiavi delle cassette di sicurezza. Assediata dai gatti e dai debiti, nel suo appartamentino telavivi al pianoterra del 23 di Spinoza Street, casette Bauhaus scrostate e puzzolenti in una vietta alberata dalle parti della centralissima Rothschild Avenue, Esther aveva cominciato a vendere tutto: due milioni di dollari per l’ originale de Il processo, a Londra, più altre carte che ancora circolano nelle case d’ aste europee e americane. Quando la signora Hoffe fu fermata, partì un processo per illegittima custodia che ancora dura alla corte di Tel Aviv, un’ inchiesta sopravvissuta alla vecchia Esther, morta nel 2007, e che al momento coinvolge le di lei figlie, Hava e Ruti, quanto mai decise a nascondere nelle banche e a non mollare il malloppo se non ai tedeschi (che al contrario degl’ israeliani sono disposti a pagarlo). Ora che il contenuto dei forzieri è noto, gli appetiti crescono. «Quel materiale appartiene a Gerusalemme - dice Mark Gelber, dell’ università Ben Gurion -, come quello dell’ ebreo Einstein. Kafka era sionista, si preparava a partire per la Palestina». «Quei documenti sono in tedesco - ribatte dalla Germania il più importante biografo kafkiano, Reiner Stach -. Definirli un’ eredità della cultura israeliana mi sembra fuori luogo. In Israele, a Kafka non hanno dedicato nemmeno una strada». «Vorrei chiedere ai tedeschi - è la replica di Ilana Haber, direttrice degli archivi israeliani -: che sarebbe stato di Kafka se, anziché morire nel ’ 24 di tbc, fosse vissuto più a lungo? Sarebbe finito ad Auschwitz, come la sua famiglia». Il processo, kafkiano assai, continua.
Francesco Battistini