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 2010  settembre 27 Lunedì calendario

MEDIOBANCA, PRIMO TEST PER IL NUOVO UNICREDIT


Alle due del pomeriggio di lunedì 20 settembre, mentre infuriava la battaglia tra Alessandro Profumo, i soci eccellenti di Unicredit e il ministro dell’Economia, un’enorme, tondeggiante figura sostava pensierosa davanti a una tomba del cimitero di Greco, periferia di Milano. Sulla lapide era scritto il nome di Vincenzo Maranghi. Il visitatore era Fabrizio Palenzona.
Di lì a poche ore, nonostante i sostegni in extremis , Profumo avrebbe dato le dimissioni da amministratore delegato. E Palenzona, vicepresidente della banca che in passato l’aveva più volte sostenuto, sarebbe stato irremovibile nel pretenderle. Assieme alla quasi totalità del consiglio di amministrazione.

Tre giorni dopo, chiudendo l’intervista al Corriere , il presidente Dieter Rampl ribadiva l’impegno in Mediobanca: «E’ una partecipazione strategica, non la venderemo».

Piazzetta Cuccia
L’austriaco Rampl e il piemontese Palenzona rappresentano la banca milanese di Piazza Cordusio nel consiglio di quella di Piazzetta Cuccia, crocevia della finanza italiana. Ma i loro margini di manovra fino a ieri erano limitati da Profumo, che aveva scelto di non partecipare al day by day, ma conservava il diritto all’ultima parola sui passaggi più importanti.

L’omaggio privato di Palenzona al maestro scomparso — lui nega, ma è stato visto e la sua sagoma è inconfondibile — e la presa di posizione pubblica di Rampl non sono di per sé una novità, ma il messaggio che mandano è oggi più forte, perché l’uscita di scena di Profumo potrebbe sciogliere le storiche ritrosie di Unicredit nei giochi dell’alta finanza.

Naturalmente, qualsiasi scenario presenta un’incognita seria: l’identità del successore di Profumo. Ma già con il consiglio del 30 settembre, dedicato ai diritti di voto da confermare o negare al fondo sovrano libico, l’incognita sarà superata. E forse anche prima. La storia, tuttavia, parla da sé. Basta ascoltarla.

Con la defenestrazione di Maranghi nel 2003, ha avuto termine la prima stagione di Mediobanca: mezzo secolo nel quale la banca d’affari, ideata dal grande presidente della Comit, Raffaele Mattioli, e tutta costruita dalla genialità di Enrico Cuccia, si era gradualmente posta al centro degli equilibri, con le Generali e le banche dell’Iri (Comit, Credit e Banca di Roma) a far peso e corona. Di questa svolta, forte di una credibilità senza pari in Italia, Profumo è stato l’assertore decisivo.

Una logica difensiva nella quale si iscriveva anche l’appoggio che, dopo le prime incertezze, Profumo ha assicurato al management, insediato da Maranghi, nel duello sulla governance di Mediobanca con l’allora presidente, Cesare Geronzi. Una logica, peraltro, che non prevedeva grandi convergenze nella politica delle partecipazioni e nel finanziamento dei grandi gruppi. Ne fanno fede le vicende di Telecom, Pirelli, Generali e dell’editoria con Unicredit che non entra in Rcs Media Group e poi vende la quota ereditata da Capitalia, mentre Mediobanca continua a esserne il primo azionista.

Autonomie
Eppure, nel rispetto delle reciproche autonomie, Mediobanca e il suo primo azionista, Unicredit, avrebbero ampi spazi nei quali collaborare: dal merchant banking alla corporate finance, in Italia e all’estero, con Mediobanca presente in Spagna, Francia e Regno Unito e Unicredit forte in Germania ed est europeo. Competenze manageriali, insediamenti nazionali, relazioni con le imprese e capacità di raccolta del risparmio, farebbero di una simile alleanza una nuova potenza bicipite in grado di rilanciare migliaia di medie imprese in competizione con Intesa Sanpaolo e di gareggiare nell’investment banking con i colossi internazionali. Che con la crisi sono diventati ancora più grandi, nonostante le sagge critiche degli eccessi dimensionali (tanto più credibili, in verità, quanto meno vengano dai protagonisti delle fusioni maggiori).

In fondo, nel disegno primigenio di Mattioli, Mediobanca non doveva diventare né un’entità separata dalle banche Iri, che l’avevano fondata e ne curavano la raccolta, né la loro padrona di fatto, come accadde dopo le privatizzazioni fino a quando il protettorato inverso della figlia sui genitori ebbe termine in seguito alla fusione del Credito italiano con le Casse di risparmio di Verona, Torino e Treviso e all’acquisizione della Comit da parte di Banca Intesa.

E’ possibile immaginare il ripensamento delle origini come un ritorno al futuro? Certo, non c’è più l’Iri, la legge bancaria è cambiata, la grande impresa privata ha ceduto il passo alle multinazionali tascabili. Ma le vecchie banche d’interesse nazionale e la loro Mediobanca avevano anche l’obiettivo di far convergere il loro con l’interesse generale.

Se Unicredit si muovesse sulla scacchiera del potere senza le remore di Profumo, che, pur essendo a capo del potentato più grande, cercava di non partecipare alle «operazioni di sistema» (e non di rado con ragione), quella sarebbe la vera novità. Non è detto che basti a reinterpretare in chiave contemporanea l’ispirazione dei grandi del passato. E’ anche una questione di uomini. Ma la novità, che offrirebbe una sponda nuova e impegnativa alla Mediobanca dei manager, sarebbe grande e spiazzante per gli altri poteri.

Lo si è visto già il giorno dopo la dichiarazione di Rampl, quando Geronzi, da presidente di Generali, evoca di sua iniziativa sul Corriere addirittura l’ipotesi di una fusione Unicredit-Mediobanca per colpirla con un siluro preventivo, atteggiandosi a protettore di Piazzetta Cuccia come se le difficoltà degli anni scorsi con gli eredi di Maranghi non fossero mai esistite. La finanza è spesso un gioco dei quattro cantoni, ma gli interessi delle imprese si spostano assai meno velocemente delle convenienze delle persone.