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 2010  settembre 25 Sabato calendario

Napoli ha deciso di festeggiare i centocinquanta anni dalla fine del Regno borbonico con un revival della grande crisi dei rifiuti che nel 2008 la portò agli onori della cronaca

Napoli ha deciso di festeggiare i centocinquanta anni dalla fine del Regno borbonico con un revival della grande crisi dei rifiuti che nel 2008 la portò agli onori della cronaca. E la ricorrenza richiama analogie significative. Ieri come oggi, mentre la città appare come un territorio legibus solutus, quel che colpisce non sono soltanto le responsabilità della politica e la debolezza dello stato, ma il silenzio di una popolazione singolarmente tollerante e l’afasia delle sue élites. E se è vero che, nelle ultime elezioni, la cittadinanza ha mostrato di voler cambiare rotta, quel che manca è un segnale sia pure simbolico della comunità che si ribella e prende il mano il proprio destino. Una piazza metaforicamente armata di pale e di scope. Giorni fa, trecento lavoratori interinali dell’azienda che raccoglie i rifiuti a Napoli — tra i quali molti ex detenuti — vengono a sapere che il loro lavoro sta per scadere. Mercoledì scorso, una settantina di autisti dei camion che prelevano la spazzatura si mettono in malattia. I rifiuti cominciano ad accumularsi nelle strade. Giovedì pomeriggio, decine di individui irrompono nella sede dell’azienda, devastandola e distruggendo cinquanta automezzi. Il giorno dopo, seicento tonnellate di rifiuti giacciono all’aria aperta. Anche un secolo e mezzo fa, nel 1860, con Garibaldi in marcia su Napoli e il regime di Francesco II agli sgoccioli, le istituzioni si erano liquefatte, la violenza era stata accettata senza fare una piega e le élites cittadine erano rimaste alla finestra. Quando una folla di lazzari e patrioti, approfittando del vuoto politico, aveva occupato le strade e attaccato le forze dell’ordine, il prefetto Liborio Romano non aveva trovato di meglio che convocare i capi delle famiglie camorriste, proponendo loro di entrare, con i propri uomini, nelle fila di una nuova polizia. La città veniva messa nelle mani di singolari tutori dell’ordine, i quali portavano grossi bastoni e una coccarda al petto. Due caratteristiche sembrano ricorrere, nell’identikit della più controversa città italiana: una violenza diffusa e impunita e la debolezza della società civile. Il caso dei rifiuti è esemplare. Dalla crisi del 2008 alla crisi attuale, si sono susseguite scelte opinabili e pure efficienti (la legislazione speciale di Bertolaso), pigrizie e furbizie politiche (i ritardi della differenziata, la demagogia dei sindaci delle discariche), problemi tecnici (gli anelli mancanti del ciclo dei rifiuti). Ma quel che altrove sarebbe stato materia di un civismo oltraggiato e occasione di conflitti politici e sindacali, a Napoli ha assunto le forme della guerriglia. Non cortei e trattative, ma falò e devastazioni. Se questa fosse stata la reazione del Paese alla crisi economica, oggi l’Italia intera sarebbe in fiamme. D’altro canto, qui l’emergenza non crea scandalo, ma tende a essere digerita culturalmente. Per lunga memoria, la gente del posto sa che i disoccupati bruciano i cassonetti e che i politici li usano per raccogliere voti. Se ne fa una ragione, alza la soglia di tolleranza. Per gli stessi motivi, mugugna ma tira avanti, quando percorre strade nelle quali si aprono voragini killer che il municipio non riempie. La società civile sembra non esistere e, quando esiste, oscilla tra vittimismo e acquiescenza. Bisogna frequentare i blog per trovare il sale della critica e la speranza di iniziative pubbliche. Il quadro è preoccupante, ma non insensato: esistono ragioni per il mob e ragioni per il mutismo della cittadinanza. Il primo agisce indisturbato in un territorio che lo Stato sembra aver dismesso. Procura, questura, prefettura si concentrano sulla grande criminalità, ma è come se non ritenessero di propria competenza la violenza capillare. Quanto alla società civile, se appare meno civile che altrove, uno dei motivi sta nella mancanza di leadership. Nella rarefazione di quei punti di riferimento che sono le istituzioni culturali, le associazioni civiche, i circoli territoriali. E i partiti. Se oggi i partiti appaiono dappertutto in crisi, i partiti napoletani non esistono, al di là di un arcipelago di notabili e micro-correnti, nel quale si entra vendendo l’anima e attendendosi qualche materiale contropartita. Nell’ultimo ventennio, la politica ha letteralmente comprato vasti segmenti della società civile, per averne sostegno culturale e professionale. E questo ha creato un clima di conformismo, che rende acefala la città e l’abbandona a generici rivendicazionismi. Nel 1860, Cavour prese molto male la passività delle élites napoletane, che non vollero ribellarsi a Francesco II e preferirono attendere l’arrivo di Garibaldi. Ma già allora, narcotizzate dal paternalismo borbonico, quelle élites non erano in gran forma e, al loro seguito, non fu reattiva la popolazione. Cherchez la politique, verrebbe da dire.