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 2010  settembre 24 Venerdì calendario

PIANO: ECCO LA MIA FOLLIA VERDE

Lontana è l’ Italia, almeno sulla carta geografica, da questo padiglione di oltre quattromila metri quadrati, che si è inaugurato ieri a Los Angeles e che ha firmato Renzo Piano, l’ architetto che, solo per fare qualche esempio, ha progettato (con Richard Rogers) il Beaubourg a Parigi e (da solo, con il suo studio Rpbw) l’ Auditorium a Roma, la Fondazione Beyeler a Basilea, la sede di Hermes a Tokyo. E che, tanto per lanciare uno sguardo verso il più prossimo futuro, sta per concludere la torre di Londra detta «Scheggia di vetro» (tra un anno e mezzo) e la nuova Biblioteca di Atene. Con sottile ironia (ma anche suscitando qualche malumore tra gli addetti ai lavori) il critico Richard Lacayo ha scritto su «Time», la stessa rivista che nel 2006 aveva inserito l’ architetto genovese tra i «cento uomini più influenti del pianeta», che la prima decade del XXI secolo corre il rischio di diventare l’ «Età di Piano», almeno in Usa: visto che «sono suoi i più importanti progetti realizzati in America come sono suoi i cantieri in corso più importanti. Questo insomma - ha sentenziato Lacayo - è ormai il Mondo di Piano». E via con l’ elenco: oltre al nuovo padiglione (il Resnick Pavilion) del Lacma (il Los Angeles County Museum of Art diretto da Michael Govan), di cui sempre Piano aveva firmato il precedente Broad Building, ci sono (in ordine sparso) la California Academy of Sciences di San Francisco; gli ampliamenti per i musei di Dallas e Atlanta; la Morgan Library e il palazzo del «New York Times» nella Grande Mela e «soprattutto» il nuovo campus della Columbia University a Manhattan; i nuovi spazi per l’ Art Institute di Chicago; la nuova ala per il Kimbell Museum di Forth Worth. Piano, come al solito, sembra voler sfuggire le celebrazioni. Lo ha fatto anche ieri, davanti alla platea degli invitati alla preview per la nuova ala del Lacma (giusto un breve discorso, qualche ringraziamento sentito e poi di nuovo verso New York e Aspen, dove sta realizzando la casa per Mr. Pritzker, quello del Nobel dell’ architettura). Ma certo è consapevole di questo suo ruolo di «ambasciatore eccellente dell’ Italia», come lo è del fatto che lui, archistar che non è archistar nonostante abbia vinto proprio il Pritzker nel 1998, è uno dei pochi grandi progettisti che non abbiano paura di confrontarsi con il passato. E che passato! A Piano sono stati infatti commissionati (non senza qualche polemica) il convento delle suore di clausura adiacente alla Cappella di Ronchamp, firmata da Le Corbusier, e l’ ampliamento del Kimbell Museum, firmato invece da Louis Kahn. «Una bella sfida» è il suo unico commento. Il nuovo Resnick Pavilion - «una follia che va bene per Los Angeles», l’ ha definito Piano - si chiama così in onore di Mr. Stewart e Mrs. Lynda Resnick, i due magnati che hanno foraggiato l’ impresa con 45 milioni di dollari per la costruzione, più altri 10 milioni per la collezione. Dopo la prima sperimentazione con una bellissima opera di Walter De Maria, si aprirà domani con una grande festa - ma più sobria di quella precedente che due anni fa inaugurò il Broad - piena di star (tra gli invitati Dustin Hoffman, che abita da queste parti, Frank Gehry, Tom Ford, Tom Cruise, Jeff Koons), magnati e appassionati d’ arte (come nella migliore tradizione di Los Angeles). Puntando (al pubblico verrà aperto ufficialmente il 2 ottobre) su tre mostre che «vogliono sintetizzare il programma enciclopedico del Lacma, ma anche la flessibilità e la capacità di mutazione del nuovo Pavilion»: «Eye for the sensual», molta arte e scultura europea (tra cui il ritratto di Maria Antonietta firmato da Elisabeth Vigée Le Brun); una panoramica sulla moda del Vecchio Continente tra il 1700 e il 1915 («Fashioning Fashion»: l’ allestimento è di un altro italiano, Pier Luigi Pizzi); infine «Olmec», una serie di capolavori dell’ arte olmeca (le gigantesche teste in basalto provenienti dal Messico sono bellissime e affascinanti). Tre modi, recita il motto del Pavilion, «per fare la storia e per mostrarla». Dicevamo dunque che lontana, da qui, sembra essere l’ Italia (e l’ Europa), ma forse è solo un’ impressione: «Con il Lacma - dice Piano al "Corriere della Sera" in un ritaglio della lunga giornata di ieri -, così come con altri due miei progetti americani appena realizzati, la California Academy of Sciences di San Francisco e l’ ampliamento dell’ Art Institute di Chicago, sto affrontando una serie di problemi che sono molto simili a quelli che spesso si trovano a dover affrontare gli architetti nei Paesi di tradizione umanistica. Qui ho realizzato un padiglione dove prima c’ era un parcheggio e quindi si parla di recupero urbano, periferie comprese. A San Francisco mi sono confrontato con i temi dell’ ecologia e della natura. A Chicago, con il museo d’ arte classica, ho affrontato invece quelli del confronto con il passato, elemento tipicamente italiano». Il risultato qui a Los Angeles è conturbante e ricorda molto l’ effetto del Beaubourg. Con quella semplicità e quella luce bellissima in perfetto stile Piano, ma anche con quei segni forti rossi (sono le bocche dei condizionatori attorno alle quali Bob Irwin ha inventato un bellissimo catalogo di piante verdi): all’ esterno una piazza urbana coperta, lunghi passaggi anch’ essi coperti e una foresta di pilastri rossi (come i condizionatori) che giocano con le palme altissime del giardino, con i lampioni di un’ installazione on the road di Chris Burden (Urban Light) e con i grattacieli del Wilshire Boulevard; e poi travertino di Tivoli invecchiato, pareti di vetro, un tetto coperto di pannelli solari; dentro muri chiarissimi e spazi regolari scanditi da poche colonne leggere. Nessuna polemica con Milano: che i suoi alberi (suoi e di Claudio Abbado) non li ha voluti. Dice solo: «L’ amministrazione ha deciso di no, o meglio non ha proprio deciso. È stata una bella occasione persa». Una parola per sintetizzare l’ intera vicenda? «Peccato». Sullo sfondo del nuovo Pavilion, circondato da collaboratori e ammiratori, Piano parla poi della necessità di «progetti civili» come di quello di spingere i giovani (studenti di architettura compresi) «ad andare fuori, a guardare all’ Europa e anche oltre» per imparare. Meglio invece dimenticarsi delle archistar: «Sono dei modelli sbagliati per i giovani. Certo, hanno acceso i riflettori sull’ architettura, che deve essere una nobile arte. Ma quanti atteggiamenti eccessivi, quante mossettine, quanta ansia di prestazione: c’ è qualcosa di distruttivo in tutto questo. E anche se a me piace certo sognare, magari di cambiare il mondo o di sfidare la forza di gravità, non perdo mai d’ occhio i bisogni concreti delle persone». Ma un architetto famoso come lei non è più libero degli altri? «Sì, ma c’ è il rischio di ripetersi, di cadere nell’ accademia». Anche per uno come Gehry (uno dei suoi colleghi più amati e stimati)? «Lui è diverso. Lui è un grande, ed è unico». L’ architetto (che ha appena compiuto 73 anni, è nato il 14 settembre 1937) invita infine a guardare all’ artigianato nel senso di conoscenza del cantiere. «L’ architettura non è gesto artistico, ma è arte. È una sfida continua con la realtà, dove non c’ è molto spazio per dare e fare spettacolo». Ma perché lei sta lavorando così tanto in Usa? «Perché noi siamo stati i primi a intendere l’ architettura, gli edifici, come un pezzo di città. Ed è quello che ci viene chiesto qui in America, ovvero la coerenza con questo nostro passato, ma anche quella concretezza che ci ha fatto grandi e unici». Ma ci sarà pure qualcosa dell’ Italia che non le piace? «Il mandolino - dice Piano con un sorriso ironico -. Non lo strumento in sé, ma il mandolino come simbolo di un’ Italia simpatica, ma anche approssimativa, allegra ma anche un po’ cialtrona, di un’ Italia che non vuole cambiare e che non sa migliorare». E quell’ Italia è davvero lontana, non solo sulla carta geografica, dal Resnick Pavilion di Los Angeles, ma anche da tutta l’ architettura firmata Renzo Piano.
Stefano Bucci