Antonio Porta, Libero 25/9/2010, 25 settembre 2010
TRAVERSATA IN BATTELLO VERSO L’ISOLA DEL MISTERO
[Tratto da La scomparsa del corpo di Antonio Porta La traversata in Ferry-Boat. Racconto inedito]
Una grossa chiatta, il ferry-boat, utilizzata in tempo di guerra, e per questo tutta in acciaio bullonato; con la cabina di comando retta da due rampe di scale, quasi un ponte coi suoi due piloni. Accanto, la saletta con le poltrone per i passeggeri che volessero scendere dall’auto e un piccolo bar, molto malmesso. (Preferisca rimanere in auto.) Stacca con una lentezza che solo il mutare delle manovre in un ampio giro dà la certezza di essere in moto. Sono le sette di sera, l’ora di chi vuole fare in tempo a cenare in casa: nel mese di Luglio è luminoso come fossero le cinque. La traversata, che così si può chiamare perché traversa un lato di Ortega, copre un’ora. In anticipo sull’orario di partenza, avevo posteggiato la macchina in prima fila, sull’estrema destra del pontone in acciaio, che è null’altro d’una strada navigante, innestantesi sull’asfalto al momento d’arrivare. Ed è da quella posizione privilegiata che entrando da un canale in un altro si osservano bene i gradini che circondano una grande chiesa e muta i suoi colori allo spostarsi della chiatta: e la lentezza della marcia permette di meditare minutamente la cupola, i contrafforti, le colonne e più oltre, altre rive, case, piazze, strette vie che vanno a chiudersi nel buio. Così le persone, come sono vestite, come si muovono, se corrono, se stanno a leggere al bordo del canale, se entrano nei negozi. Più nitidi sbalzano i contorni da
una piazzetta quadrata, caratteristica ad Ortega, perché dà la faccia al tramonto e le ombre non l’hanno ancora stretta. Come il tubo all’imbuto vi s’attacca un vicolo lungo e molto abitato. Sta di fianco al porto dove attraccano navi d’ogni nazione, e tutta quella gente ci vive attorno, come le mosche s’ammucchiano sopra una torta. Quando si vive in miseria non s’ha tempo né volontà di tener lucido e il vicolo viene insozzato di continuo. Mettono le sedie davanti all’ingresso di casa e ci passano le sere, le donne ci allattano con gesto sicuro. La piazzetta, invece, è linda, abitano quelli con lo stipendio e mettono i garofani sul davanzale. Un anticamera tirato a cera per un corridoio senza sbocchi. Quando ci s’entra si va via zitti. Era scoppiata una lite, che cessa subito dietro un portone. C’è una che canta. Come se niente passasse, e lei ha un suo amore, uno che sta seduto su un pilone d’attracco, un ragazzo sereno. Il sole si fa il gran pallone rosso che è solo ad Ortega. Un mio amico viene di corsa e gli chiede la radio a prestito. Lui l’ha già su una gamba e l’amico dice che ascolterà la musica alle nove, da solo in cucina, che poi è anche il soggiorno.
Cacciavo i gatti
Io vedo tutte queste cose in quel minuto che passa il ferryboat perché giù di là ci ho messo il naso tante volte; avevo casa vicino, in un’altra viuzza uguale, da piccolo giravo mezzo nudo, mia madre preparava il pesce in un catino con le mani, davanti all’ingresso e l’abbrustoliva sul carbone di legna. Stavo a cacciare i gatti. Se volevo facevo la pipì nel fiumino che lì vicino finiva nel buco dell’acqua. Intanto un gatto cercava d’azzannare tutto che poteva e correvo indietro a strapparlo per la coda. Ricordo tanto di allora, passando, dopo essermi lasciato dietro l’università e tanti anni di lavoro che han fatto nascere e rinascere le mie fortunate attività. Ora vivo in una villa di campagna, e una delle mie distrazioni è l’auto che guido e tengo lucida (ora che è nuova) personalmente, avendo sempre rifiutato l’aiuto di un autista. Mi piace correre, fa specchiare nel cofano gli alberi e le case, e un cielo fondo. Mi è anche sempre piaciuto scrivere di me, nei momenti liberi e si perdono, poi, dietro la cabina di comando, alle mie spalle, mentre, ormai, costeggiano la zona chiamata Ebrea perché un tempo ce n’erano molti, con un loro mercato. Di lontano sta giungendo il temporale e gli abitanti in fondo a sinistra accelerano il passo, entrano in fretta nei negozi. I passanti s’aggruppano in folla con tutti quelli che fanno un salto fuori prima dell’acqua. Chissà quanti ne conosco, magari solo di vista. La riva è ampia, a selciato, più illuminata dalle insegne dei negozi accese: le gocce cominciano a battere il parabrezza. Il ferry-boat sta immerso nell’acqua d’uno stesso colore, sopra e sotto, dove il canale ha mu-
tato il verde oscuro e brillante. S’incrocia l’edificio più bizzarro che si incontri durante la traversata: alto, rosso cupo, con due più alte torri decorate a gotico, con alla base un fitto di paranchi e di funi d’acciaio. Scuri i vani delle finestre, nemmeno sui moli c’è persona viva. Sembra strano che neppure un solo impiegato faccia tardi in qualche stanza. Oltre, solo i magazzini e al finire della riva Ebrea il soffitto sempre più denso del temporale, e ci andiamo incontro. Ortega è un bambino attaccato alla terra da un ombelico, che è il ponte. La distesa del mare resta sulla sinistra. Il temporale all’orizzonte stringe il mare che si perde all’occhio. Sull’acqua, a Ortega, stan segnate le vie che le imbarcazioni devono percorrere per non infilarsi in secca: e noi si naviga, ora, tra i pali segna-via senza incontrare piccole imbarcazioni, che si son ritirate come i passeri tra gli alberi. Una nave passeggeri tiene in rotta in mare aperto. Il ferryboat s’attacca all’asfalto. Due impiegati alzano in fretta le sbarre, dando il passo alle auto nel momento in cui l’acqua s’alza in violenza e rapidità. Subito penso a chi deve saltar
giù dalla sala passeggeri e la bagnata non se la toglie di certo. Intanto non riesco a mettere in moto. Altre auto mi superano mentre l’acqua s’appiatta come una tela sul ponte di ferro. Ecco che se ne vanno pure certi amici con un’altra auto. Salutano. Il motore resta spento. Gli impiegati con gli impermeabili lucidi che scrosciano, dicono che riparto subito. S’attende l’auto che per ultima sterza dietro la curva battuta dall’acqua, spessa che i tergicristalli faticano a lisciare via.
L’apparizione
Il ferry-boat staccò come alla partenza e diresse la bocca d’uscita verso il mare aperto, sulla sinistra della città. Il mare sotto l’acqua si chiude come un fiore in un pozzo. Le onde a piega di gonna seghettavano la superficie che la chiatta incideva. Il temporale, spostandosi in là scagliava la luce gialla della sera di un dopopioggia mentre a destra, in fondo, il ponte era percorso dall’acquazzone. Fu improvvisamente che si vide l’isola dove si faceva rotta. Simile a un’apparizione, illuminata com’era dalla luce di sbieco come un riflettore. Il bianco delle case e l’altezza del campanile coprivano la sommità dell’isoletta curva a collina. Sotto erano foreste e vigneti, con i profili tanto più nitidi per quel chiaro del sole sullo scuro del fondo. Come fosse costruito, il paese, per il rigore delle linee. Scesi che il ponte era ancora bagnato, sparso di riflessi; attraversai, calpestandola, una lunga rete stesa ad asciugare. M’incammino verso un monastero che sta in alto, accanto alla chiesa. Dalla parte mia mostra delle verande. La luce s’è ormai eclissata e salgo la scalinata, di quegli scalini lunghi e ampi, fitti di pietre tonde cementate dal terriccio. Tutti gli abitanti si sono ritirati e si ode una radio; passando accanto a un pianoterra colgo il rumore delle posate. La porta del monastero è già aperta, illuminata da un’unica lampadina piena di polvere. Il Padre Guardiano mi assegna quasi senza parole, con un semplice "buona notte", la stanza, non grande, com’è nei monasteri,
ma alta di soffitto, e dipinta a calce, con un letto in ferro battuto, tre sedie, un tavolo abbastanza ampio, un inginocchiatoio. Sul tavolo, delle foto di mia moglie e delle mie figlie, scattate in un bosco di montagna. Spenta la luce, chiara e diffusa, attendo il mattino, e mi resta il suono del campanello, che usano i religiosi.
Finalmente posso aprire le imposte in legno e correre a guardare fuori. Il mare è di un blu luminoso e intenso come mai avevo visto a Ortega. Proprio sotto la mia finestra, un vicolo e una panetteria dove le donne vanno e vengono con la sporta colma di pane. Dei lineamenti acuti, legnosi, una pelle brunita e splendente. Al di là, e più in basso, delle case, il declivio si ricopre di pini d’un verde tenero e intenso. Sulla linea del mare, tra i rami, un tratto di spiaggia, dove l’onda ampia e tranquilla deposita una sabbia bianca, con attraverso un luccichio che non mi stanco di guardare.