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 2010  settembre 22 Mercoledì calendario

LA VITTORIA DELL´ASSE BERLUSCONI-GERONZI

La battaglia contro Alessandro Profumo e la conquista di Unicredit è l´ultima, grande operazione del capitalismo di rito berlusconiano-geronziano. L´indecoroso «dimissionamento» dell´amministratore delegato e il clamoroso ribaltone al vertice della prima banca italiana non è solo la sconfitta di una certa idea del libero mercato, dove ognuno fa il suo mestiere: la politica detta le regole del sistema, i manager gestiscono le società creando valore per gli azionisti, e i soci incassano gli utili e i dividendi. In Italia non funziona così: nelle grandi casseforti dell´economia e della finanza, spesso blindate tra partecipazioni incestuose e relazioni pericolose, politici arrembanti e azionisti deferenti si alleano per far fuori i manager disobbedienti. Letta in questa chiave, la battaglia di Piazza Cordusio e la cacciata di Profumo lasciano sul campo due sicuri vincitori: Silvio Berlusconi e Cesare Geronzi. Il presidente del Consiglio ottiene una vittoria politica, in vista dell´appuntamento cruciale che, nella sua agenda, è fissato per il marzo 2011: le elezioni anticipate. Il presidente delle Generali strappa una vittoria finanziaria, in vista della mossa che, nella sua testa, chiuderà il «Risiko» dei Poteri Forti: la fusione Generali-Mediobanca.
Tra un appuntamento a Palazzo Chigi (dove dispone di un suo ufficio) e una colazione da Mario a via de´ Fiori (dove pranza con gli ospiti di riguardo) lo spiega direttamente Luigi Bisignani, fiduciario di Gianni Letta e uomo di raccordo della filiera berlusconian-geronziana: «Voi continuate a mettermi in mezzo, ma con questi affari io non c´entro. Detto questo, mi pare che stiamo solo al primo passo: il prossimo sarà la grande fusione... «. La «grande fusione», appunto. Cioè il «merger» Mediobanca-Generali, di cui il Cavaliere di Arcore dichiara di non occuparsi e il Leone di Trieste giura di non sapere nulla. In realtà le cose stanno diversamente. E l´affondamento di Profumo è solo una tappa, in questo percorso di guerra. Unicredit è il primo azionista di Mediobanca, con l´8,6% del capitale. Qualunque operazione su Piazzetta Cuccia non si può fare, se non controlli il capo-azienda di Piazza Cordusio. Anche per questo è partito l´attacco a «Mister Arrogance». Ecco in che modo.
La partita politica.
Come riassume un ministro che si è occupato in questi mesi della vicenda, «il destino di Profumo era segnato da un anno e mezzo, e lui era il primo a saperlo». In parte è così. L´amministratore delegato sapeva di avere ormai troppi nemici, dentro e fuori dalla banca. C´è chi sostiene addirittura che la sua fine sia stata decretata l´8 luglio, nella famosa cena a casa di Bruno Vespa, dove Berlusconi, seduto a fianco di Cesare Geronzi, avrebbe imposto al governatore della Banca d´Italia Draghi uno «scambio»: io ti sostengo per la corsa alla Bce, tu non ti opponi al ribaltone in Unicredit. Ipotesi ardita. Forse fantasiosa. Sta di fatto che il ministro del Tesoro Tremonti, non invitato a quella cena, non ha gradito. E da quel momento, dopo aver bastonato per due anni le banche e i banchieri, ha curiosamente cominciato a difendere Profumo.
E sta di fatto che lo stesso Profumo, prima dell´estate, si è mosso con i libici, per cercare una sponda che gli desse manforte contro gli altri azionisti all´attacco, dalle Fondazioni delle Casse del Nord ai tedeschi dell´Allianz guidati dal presidente di Unicredit Dieter Rampl. Per questo all´inizio di agosto, alla vigilia della partenza per le ferie, lo stesso Profumo è andato in missione ad Arcore, a spiegare a Berlusconi il senso dell´ingresso dei libici nel capitale Unicredit. Dal suo punto di vista, i fondi sovrani del Colonnello Gheddafi dovevano essere il suo «cavaliere bianco». E invece si sono rivelati il «cavallo di Troia», che lo stesso Berlusconi, Bossi e Geronzi - attraverso Palenzona, Biasi e Rampl - hanno usato per sfondare le sue difese.
Il premier, in quell´occasione, ha dato ampie garanzie a Profumo: «Procedi pure con i libici». Ma è stata una pillola avvelenata. Nel frattempo il suo affarista di fiducia per l´area Sud del Mediterraneo, Tarak Ben Ammar, con la benedizione di Geronzi di cui è a sua volta amico personale, ha trattato direttamente con Gheddafi i termini del suo impegno in Unicredit. Un impegno che doveva servire da alibi, per lanciare l´offensiva contro Profumo, ancora una volta all´insegna (pretestuosa) della difesa dell´«italianità» dei campioni nazionali. Il segnale che l´operazione libica stava prendendo una piega diversa da quella immaginata dall´amministratore delegato è arrivato un mese dopo. Il 25 agosto, al meeting di Cl a Rimini, proprio Geronzi si è lasciato andare a una frase sibillina: «Fin dai tempi di Capitalia, i libici sono stati i migliori soci che io abbia mai avuto». È parsa una dichiarazione distensiva verso l´aumento progressivo della partecipazione dei fondi di Tripoli in Unicredit. E invece è stata solo un´altra pillola avvelenata contro Profumo.
Lo si è capito pochi giorni più tardi, quando il 30 agosto il Colonnello è sbarcato a Roma, accolto con tutti gli onori dal presidente del Consiglio e dalla plaudente «business community» italiana. Tra il faccia a faccia a Palazzo Chigi e la cena alla caserma Salvo D´Acquisto, Gheddafi e Berlusconi hanno parlato dell´affare Unicredit. Subito dopo, Geronzi si è recato a Palazzo Grazioli, è ha messo a punto insieme al Cavaliere il piano d´attacco a Profumo. Un piano in tre mosse. Prima mossa: allarme mediatico per la «scalata libica», lanciato ai primi di settembre dalla Lega, che ha costretto la Consob e la Banca d´Italia a chiedere chiarimenti a Profumo. Seconda mossa: attacco mediatico dalla Germania, con la «Suddeutsche Zeitung irritata per «l´arroganza» del ceo. Terza mossa: convocazione di un consiglio straordinario da parte dei «grandi azionisti», per ridiscutere l´operato del management. È esattamente quello che è accaduto in queste tre settimane, e che ha portato l´amministratore delegato alla resa finale.
La vittoria politica di Berlusconi si può riassumere così. In uno scenario che precipita palesemente verso le elezioni anticipate, il premier sistema la partita strategica di Unicredit, si libera di un manager troppo autonomo dal Palazzo, e in un colpo solo rinsalda il suo patto di ferro con Umberto Bossi, sigla una tregua con il governatore di Bankitalia Draghi, e ridimensiona le velleità politiche del suo ministro-antagonista Tremonti. Sembra fantascienza. Ma forse non lo è affatto. Lo prova, paradossalmente, la sobrietà con la quale lo stato maggiore del Carroccio festeggia le dimissioni di Profumo. Lo prova, allo stesso modo, la battaglia non proprio campale che Via Nazionale ha condotto per difendere la governance della prima banca italiana. Lo prova, infine, l´ultima battuta di Tarak, all´uscita della riunione del patto Mediobanca di ieri: «I libici irritati per quello che è successo a Unicredit? Non credo affatto...». Per molte ragioni, la sconfitta di «Mister Arrogance» ha accontentato diverse casematte del potere, politico ed economico.
La partita finanziaria
Se il premier su Unicredit ha giocato dunque la sua partita politica, Geronzi su Profumo ha giocato la sua partita finanziaria. E lo ha fatto con l´obiettivo raccontato da Bisignani. Espugnare la fortezza di Piazza Cordusio, per poi coronare il progetto che si porta dietro dalla scorsa primavera, da quando cioè ha traslocato dal vertice di Mediobanca alla presidenza delle Generali: fondere Piazzetta Cuccia con il Leone di Trieste. E così ridefinire una volta per tutte, a suo vantaggio, gli equilibri del capitalismo italiano. Da maggio scorso, a dispetto di una governance che formalmente assegna allo stesso Geronzi poche deleghe in Generali, lasciando a Mediobanca il controllo delle partecipazioni strategiche come Rcs, Telecom e le banche, il nuovo Cesare del capitalismo italiano ha ingaggiato una guerra senza quartiere con i due «alani» rimasti a Piazzetta Cuccia. Lo ripete lo stesso Bisignani, senza farne mistero: «Con Renato Pagliaro e Alberto Naghel gli scontri sono continui...».
Geronzi si sta smarcando sempre di più, dall´orbita Mediobanca. E lo fa non per lasciare all´Istituto che fu di Enrico Cuccia la sua piena autonomia, ma per raggiungere il risultato contrario: cioè tornare a comandare anche lì. Con l´operazione di «reverse merger» di cui si parla da tempo, e che "Repubblica" ha anticipato nella primavera scorsa, e che ora lo stesso Bisignani conferma. Un´operazione che, secondo fonti di mercato, coinvolgerebbe persino la Mediolanum, di cui il premier vuole disfarsi, perché non sa cosa farne, e che lo stesso Geronzi sarebbe pronto ad accollarsi, per rendergli l´ennesimo favore. Sembra fantascienza, anche questa. Domani fioccheranno smentite. Ma anche fino alla scorsa primavera il banchiere di Marino aveva smentito il suo progetto di trasferirsi in Generali. Sappiamo poi com´è andata a finire.
Al fondo, resta l´immagine di un capitalismo ancora una volta provinciale, asfittico, autoreferenziale, etero-diretto dalla politica. In questa ultima grande partita del potere italiano non ha perso Profumo, uno dei pochi grandi banchieri di caratura internazionale in questo sciagurato paese. Ha perso l´intera, sedicente «élite» della solita, piccola, Italietta.