Massimo Gramellini e Carlo Fruttero, La Stampa 24/9/2010, pagina 88, 24 settembre 2010
STORIA D’ITALIA IN 150 DATE
1972 -78
Shot river/Gigi
Non ero nella mia stanza, non gli ho tirato un colpo di karate alla nuca, non l’ho buttato dalla finestra. Mi hanno condannato a morte per un delitto che non ho commesso. Io e Pinelli ci fidavamo l’uno dell’altro: dopo le bombe di piazza Fontana ero andato a prenderlo con la 850 di servizio, ma avevo lasciato che mi seguisse col suo motorino fino alla questura. A Natale gli avevo regalato un libro sulla Cina e lui a me l’Antologia di Spoon River. Dormiamo entrambi sulla collina, adesso. Legati da uno stesso destino. Qualcuno sostiene che sono un santo, ma allora pensavano che fossi il diavolo. Dicevano: è un agente della Cia, la guardia del corpo di un generale americano. Io, che non so una parola d’inglese… Quando querelai Lotta Continua, vennero al processo per gridarmi: assassino! Lo scrivevano sui loro giornali. Intellettuali famosi firmarono manifesti contro di me, mentre sui muri le mie mani grondavano sangue e io ero «il commissario Finestra». So che se ne vergognano, adesso. Erano tempi allucinanti, ho visto bambini sfilare in corteo col libretto rosso di Mao. Non sono un diavolo né un santo. Sono stato un uomo. Un commissario di polizia. Ho diretto le cariche contro gli studenti che avevano occupato la Cattolica. Ho protetto col mio corpo il loro leader Capanna, quando si presentò ai funerali dell’agente Annarumma e i miei lo volevano linciare. Ho indagato su piazza Fontana e continuo a pensare che i manovali fossero di sinistra e le menti di destra. Pinelli era un anarchico all’antica e quando capì di essere stato usato, anche da qualche compagno meno galantuomo di lui, non resse la vergogna. Morì e per me la vita divenne un inferno. Scoprii che il rivoluzionario esploso su un traliccio di Segrate mentre preparava un attentato era l’editore Feltrinelli, bastava aggiungergli i baffi, ma la Cederna scrisse che lo avevamo ammazzato noi... Amavo leggere, sul comodino ho lasciato una biografia di Kruscev. I colleghi mi sfottevano per i libri. E per i capelli: appena vedevo uno specchio, correvo a pettinarmeli. L’ultima volta prima di uscire di casa, la mattina in cui nell’androne ho sfiorato un tizio con la faccia nascosta dalla Gazzetta dello Sport. Ho messo la chiave nella serratura del mio bolide, una 500 blu. E poi.
Mi chiamo Luigi Calabresi, Gigi per gli amici, e sono stato ucciso a 34 anni con due rivoltellate alla schiena il 17 maggio 1972. Secondo la giustizia umana, l’uomo nell’androne era Ovidio Bompressi e i suoi mandanti Pietrostefani e Sofri. Non portavo mai la pistola con me: sapevo che sarei morto senza possibilità di difendermi. Colpito alle spalle, perché il mio assassino non avrebbe avuto il coraggio di guardarmi negli occhi