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 2010  settembre 24 Venerdì calendario

“Chi ha paura della libertà di Mondadori?” - Maurizio Costa contempla i colori dell’autunno che arriva dalle grandi finestre del palazzo Mondadori di Segrate

“Chi ha paura della libertà di Mondadori?” - Maurizio Costa contempla i colori dell’autunno che arriva dalle grandi finestre del palazzo Mondadori di Segrate. L’estate, ammette, ha portato «amarezze». Accuse, polemiche, sospetti, veleni. Non è facile guidare un’azienda che ha più di cent’anni ma che ora appartiene al capo del governo più chiacchierato d’Europa. Costa, vicepresidente e amministratore delegato, si consola con i riconoscimenti di professionalità e libertà editoriale che alla fine sono venuti anche dai polemisti più accaniti. E guarda al futuro annunciando l’arrivo, a giorni, del primo pacchetto di e-book: entro Natale mille e 400 titoli in formato digitale. La nuova era dell’editoria comincia due anni dopo il punto di caduta più basso della crisi, quando pochi avrebbero scommesso sul futuro. Ingegner Costa, lei è appena tornato da Berlino dove ha celebrato i 175 anni del più grande gruppo di carta stampata del pianeta, Bertelsmann, e dove ha incontrato gli editori del mondo. Che aria tira? «Direi maggior consapevolezza, non euforia, ma le nebbie si stanno diradando, i conti economici delle aziende cominciano a respirare un po’ di più e abbiamo la possibilità di ragionare sul futuro e investire risorse in questo new deal. Siamo a un punto di svolta epocale, paragonabile a quella di Gutenberg di cinquecento anni fa. Adesso come allora un’altra grande discontinuità tecnologica: il digitale». Lei crede che la carta sparirà? «No, anzi. Ma per l’editoria sarà un altro inizio, la nuova tecnologia che ci darà la possibilità di diffondere nuovi contenuti. L’editoria ha un grande futuro, con rischi e opportunità». Le opportunità? «Intanto innovazione nel mercato. Nel passato c’era un’egemonia, un rapporto gerarchico tra prodotto e lettore nella quale guidava il prodotto. Oggi il rapporto si inverte perché il lettore ha molto più potere, è bombardato da proposte e suggestioni, può scegliere. A noi tocca il compito di raggiungerlo e proporgli quello che cerca. L’altro giorno leggevo su La Stampa un articolo di Guido Ceronetti in difesa dei giornali. Mi ha colpito un passaggio. Diceva: torniamo agli strilloni. E questo è il punto: dobbiamo andare a cercare i lettori». Sembra il quadro dell’«editoria senza editori» guidata dal marketing raccontata nel pamphlet di André Schiffrin: scelte editoriali dettate dall’ufficio vendite. È così? «No. Intanto il marketing non è un’attività spregevole, anche se io preferisco chiamarlo servizio al cliente: conoscerlo per fargli la proposta giusta e consegnargli in tempo rapido il prodotto, che siano libri, periodici o quotidiani. Oggi il digitale ci dà la possibilità di interpretare il cliente e suggerirgli ciò che desidera». Appunto, detta così sembra una rinuncia al ruolo culturale dell’editore che pubblica dei libri per il valore che hanno e non perché pensa che assecondino il gusto del pubblico. «No, è il contrario. Noi pubblichiamo mille e 500 nuovi titoli all’anno. Per pubblicare questi ne vengono scartati migliaia, purtroppo. Pubblicare un libro oggi significa fare un investimento molto importante: carta, stampa, promozione. Nel futuro si potrà fare in termini economicamente molto più vantaggiosi. E si potranno pubblicare molti più autori». Insisto: ma se non avete la certezza che un certo libro venderà, lo pubblicate o no? «Con le nuove forme di diffusione i rischi economici saranno minori, potremo allargare enormemente l’offerta. Però chi conosce il lavoro editoriale sa che non esiste editor che dica: questo libro è buono ma non si pubblica. Il nostro è ancora un lavoro da idealisti». Eppure questa è stata la polemica letteraria dell’estate sostenuta dal critico Andrea Cortellessa nel suo film Senza scrittori. L’ha visto? «No». Cortellessa ha fatto un’inchiesta per dimostrare che ormai le scelte editoriali sono dettate dal marketing, a cominciare dai grandi premi che negli ultimi anni sono sempre stati vinti dal gruppo Mondadori. Perché? «Non me ne posso certo rattristare. Ma non è una questione di marketing: è un tema di qualità editoriale della proposta. Prendiamo l’ultimo Campiello: su cinque finalisti tre erano nostri e il primo e il secondo sono stati un libro Einaudi e uno Mondadori. Quest’anno è andata bene. L’anno prossimo non so. D’altra parte non sempre i buoni libri vincono i premi...». E non sempre i libri che vincono i premi sono buoni... «Infatti. Invece sono convinto che la qualità degli uomini che fanno i libri in Mondadori è molto alta e hanno un rapporto unico con gli autori. È questo che determina il circolo virtuoso. Comunque le do una notizia: fra pochi giorni presenteremo a Francoforte mille e 200 e-book di cui duecento novità. Ed entro Natale ne arriveranno altre duecento. Stiamo cavalcando questa opportunità. Vogliamo essere all’avanguardia». Gli ultimi mesi sono stati difficili per la Mondadori accusata di essere condizionata dalla politica del suo proprietario-premier, incalzata dagli altri editori per la legge sulle intercettazioni, minata dalle polemiche di alcuni tra i suoi stessi autori. Come ha vissuto questi ultimi mesi? «Con amarezza, certo, ma non voglio entrare nel merito. Già prima vi erano stati tentativi di tirare in ballo la Mondadori in maniera strumentale, creando una sorta di dicotomia tra azienda e proprietà. Penso che Marina Berlusconi abbia risposto con grande chiarezza: non c’è dicotomia. Io sono a capo di questa azienda da quindici anni e lo posso testimoniare». Tutto è cominciato quando Berlusconi ha detto che i libri come Gomorra di Roberto Saviano (che viene pubblicato da Mondadori) fanno male all’immagine dell’Italia. Che ne pensa? «Mondadori è un editore libero, per la sua storia, per il rispetto che ha per ogni idea, per i libri e le riviste che pubblica, per i suoi autori, giornalisti, per i suoi manager. E lo è anche per il suo azionista. Lo hanno testimoniato le decine di dichiarazioni di questi mesi». Nel dibattito sono entrati anche numerosi autori Mondadori. «Rispondo con i fatti: se c’è un confronto di idee, un editore non può che essere contento. Se sono gli autori ad animare questo dibattito, ancora meglio. Noi siamo per la libertà di espressione. Quello che non possiamo accettare è il fatto che ogni idea venga letta sotto la lente deformante della battaglia politica. In questo paese ci sono fin troppe corporazioni e ideologismi. Guardate il nostro catalogo storico e quello che abbiamo pubblicato. Ma nell’amarezza di questo agosto, c’è stato un riconoscimento unanime di qualità, di professionalità e serietà della Mondadori. Merito delle nostre strutture editoriali, di quegli editor che sono innamorati del nostro lavoro». Ma se siete così gelosi della vostra indipendenza, perché al Salone del libro di Torino non avete firmato l’appello degli editori contro la legge sulle intercettazioni? «Per rispondere sarei costretto a entrare in polemiche ormai superate. Preferisco tenere un tono più alto. Quella fu un’operazione di marketing dei nostri concorrenti, come dicemmo allora. Noi avevamo sottoscritto la presa di posizione di associazione e federazione editori. Perché avremmo dovuto firmare un appello sopra e oltre a quello? Solo perché qualcuno in piena bagarre ha alzato il dito per metterci presuntamente in imbarazzo?». Però di là siamo arrivati al caso del teologo Mancuso, il quale ha annunciato - con molti ondeggiamenti - che lascerà Mondadori. Come lo spiega? «Ormai è un capitolo chiuso. Si sono fatte fin troppe illazioni. Restiamo ai fatti, e mi torna in mente un episodio del ’94, quando il gruppo Mondadori assunse il controllo dell’Einaudi. Fui proprio io a incontrare Giulio Einaudi e il gruppo dirigente di via Biancamano per favorire l’ingresso in Mondadori. Allora un giornale titolò: il Biscione si mangia lo Struzzo. Sono passati sedici anni, l’Einaudi vive una straordinaria stagione editoriale, è tornata in piena salute e lo Struzzo corre libero e sereno».