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 2010  settembre 24 Venerdì calendario

Chatwin in viaggio verso se stesso - Nei suoi ultimi me­si di vita, avvolto in uno scialle e immobilizzato su una sedia a ro­telle, Bruce Cha­twin si lamentò con la moglie Elizabeth: «Ci sono così tante cose che voglio fare

Chatwin in viaggio verso se stesso - Nei suoi ultimi me­si di vita, avvolto in uno scialle e immobilizzato su una sedia a ro­telle, Bruce Cha­twin si lamentò con la moglie Elizabeth: «Ci sono così tante cose che voglio fare...». Aveva in mente un libro sulle guarigio­ni, The Sons of Thunder ; un trit­r tico di storie modellato sui Tro­is Contes di Flaubert; un roman­zo ambientato in Asia sulla vita del botanico austro-america­no Joseph Rock; un altro in Sud Africa, nel quale avrebbe esplo­rato i pettegolezzi e le gelosie di un villaggio; una storia d’amo­re, Lydia Livingstone , che tra Parigi, Mosca e New York met­teva in scena la «jamesiana» fa­miglia di Elizabeth. Morì nel 1989, a 48 anni, con il successo appena assaporato, stroncato sul campo da gioco della lette­ratura mentre si apprestava a entrare per il secondo tempo. Come ha detto Tom Maschler, il suo editore inglese, a Nicho­las Shakespeare, che di Cha­twin ha scritto la biografia più completa e ha ora curato, insie­me con la vedova, questa rac­colta di lettere ( Under the Sun , Jonathan Cape, pagg. 554, euro 42,75): «Di quello che conside­ro il mio pacchetto d’autori -Jan McEwan, Martin Amis, Ju­lian Barnes, Salman Rushdie -Bruce era quello al cui sviluppo guardavo con più interesse. Penso che se avesse vissuto, sa­rebbe stato il primo di tutti lo­ro ». A più di vent’anni dalla scom­parsa, svanito ormai quel feno­meno un po’ di moda e un po’ di culto che post mortem s’im­padronì del personaggio come dell’opera, e attenuatosi anche il successivo revisionismo criti­co tendente a farne un minore con qualche talento, compre­so quello pubblicitario, ma po­co spessore, si può cominciare a parlare di Chatwin con il di­stacco critico che la sua scrittu­ra merita. Le lettere paziente­mente raccolte e selezionate per un arco di tempo che ab­braccia in pratica l’intera esi­stenza, aiutano in tal senso: ci raccontano le sue letture e i suoi interessi, le ambizioni e i fallimenti, i dubbi e le idiosin­crasie. Lo scrittore capace di cambiare vertiginosamente soggetti e argomenti (nessuno dei suoi libri è eguale all’altro per trame, situazioni, avveni­menti, descrizioni, stile persi­no) e di annullarsi dietro di es­si, qui appare in piena luce: os­servatore curioso, raccontato­re inesauribile, interlocutore sempre disponibile e, natural­mente, viaggiatore instancabi­le, sempre più a disagio nel suo Paese d’origine, un’Inghilterra paragonata a una tomba... Il no­madismo, studiato per una vita e oggetto del suo primo e unico libro fallito e mai pubblicato, assume nelle lettere il sapore quasi bulimico di una conti­nua corsa, per tutti e cinque i continenti, in cerca di un altro­ve impossibile e infatti mai tro­vato. Aveva fatto propria una massima di Montaigne: «Di so­lito a chi mi chiede il perché dei miei viaggi, rispondo che so be­ne da che cosa sto fuggendo, ma non che cosa sto cercan­do ». Intelligentemente, Nicho­las Shakespeare vi aggiunge questa osservazione dello scrit­tore vietnamita Nguyen Qui Duc: «I nomadi dell’antichità viaggiavano in cerca di cibo, ri­fugio, acqua; noi nomadi mo­derni viaggiamo in cerca di noi stessi». Qui e là nelle lettere, un sinte­tico commento di Elizabeth Chatwin rimette a posto un’os­servazione, corregge una data o un luogo, distingue fra una re­altà e una semplice fantasia: una decina di interventi su qualche centinaio fra lettere e cartoline, troppo pochi e trop­po insufficienti per reggere l’idea, come qualche recenso­re ha fatto, dell’eterno Bruce Chatwin «falsario», «bugiar­do », se non proprio imbroglio­ne... Ma va comunque detto che se in uno scrittore il rappor­to con la verità è sempre com­plesso, nel suo caso è irrisolvibi­le, tanto per lui quest’ultima si confonde con la propria visio­ne del mondo, nella quale cor­relazioni, intuizioni e perso­naggi rispondono a un preciso canone estetico e etico. Cha­twin ha sempre mischiato re­portage e narrativa, ritenendo la propria verità artistica supe­riore, o, in ogni caso, più inte­ressante di quella reale. Da Le vie dei canti a Utz a Il vicerè di Ouidah , le storie che egli rac­conta sono così intrecciate di vissuto e di immaginato da far uscire una plausibilissima e perfettamente logica altra di­mensione . Ciò che comunque emerge dalle lettere, nello scambio con persone differenti per età, sesso, interessi, nazionalità, è l’incredibile capacità di intuire e comprendere, legare insie­me e approfondire temi... Dota­to di una solida cultura umani­stica e di un occhio artistico straordinario, appassionato di scienze umane e di scienze na­turali, Chatwin mette tutto ciò al servizio di una golosità della vita che poi troverà nella scrit­tura uno sfogo e una disciplina, spingendolo di là dalla narrati­va contemporanea, in un cam­po dove i confini tradizionali si mischiano e si confondono, di­vengono un’altra cosa, un ge­nere sconosciuto. L’unico a es­sersi spinto sulla stessa strada, è stato il tedesco W.G. Sebald, anche lui morto troppo presto, come se un irato dio delle lette­re fosse lì a punire gli scrittori troppo audaci, arrivati a rubar­gli il fuoco segreto della creazio­ne...