Alessandro Ursic, La Stampa 24/9/2010, 24 settembre 2010
LA MALEDIZIONE DEL DIAMANTE BLU
Frustrati dal muro di gomma eretto dai thailandesi, dopo 20 anni i sauditi quasi preferivano non pensare più a quella spy story all’orientale in cui avevano perso gioielli per milioni di dollari, la vita di quattro funzionari e tanti, tanti chili di bile. Derubati prima, turlupinati poi: quello era il danno, sufficiente per inquinare da allora i rapporti tra Bangkok e Riyadh. Ora è arrivata la beffa: la prospettiva di vedere uno dei principali sospettati promosso a numero due della polizia thailandese. Così, la ferita causata dalla «maledizione del diamante blu» è tornata a sanguinare.
C’è di tutto in questa storiaccia di pietre preziose, poliziotti corrotti, torture, omicidi mai risolti e coperture politiche, eppure iniziata nel 1989 con un semplice furto. Un giardiniere thailandese del principe saudita Faisal, primogenito dell’allora re Fahd, ruba dalla cassaforte della principessa «rubini grandi come uova» e soprattutto un inestimabile diamante da 50 carati. Nasconde il bottino in una sacca per aspirapolvere e lo manda per posta aerea in Thailandia, dove però lo svende a un gioielliere scaltro. Su pressione di Riad, la polizia thailandese rintraccia presto i due uomini, restituendo il maltolto. Caso risolto? Tutt’altro. I sauditi si accorgono che quelle sono patacche, e decidono di inviare in Thailandia un loro uomo d’affari a investigare.
Nel febbraio 1990, a Bangkok, in due diversi episodi a poche ore di distanza vengono assassinati il console saudita e altri due funzionari. Nello stesso mese sparisce, e mai viene ritrovato, anche il detective di Riyadh. Nel frattempo, a sfogliare i rotocalchi e secondo voci ormai incontrollate, alcuni preziosi al collo di facoltose signore thailandesi - mogli dei più potenti uomini del Paese - somigliano un po’ troppo a quelli rubati. I sauditi si infuriano, cancellando i visti di centinaia di migliaia di lavoratori thailandesi nel regno. A Bangkok, intanto, la storia causa altre vittime. Il super-poliziotto che aveva guidato le prime indagini, Chalor Kerdthes, fa torturare il gioielliere scaltro; moglie e figlio di 14 anni muoiono poco dopo in un «incidente stradale» - uccisi con colpi alla testa, si scoprirà poi. Chalor viene condannato a morte per il doppio omicidio: oggi è ancora in carcere.
Poi, per 15 anni il nulla. Ma all’inizio di quest’anno, dopo che l’Fbi thailandese informa i sauditi di sospettare un tale Abu Ali - soprannome, neanche nome, più diffuso di Mario Rossi - dell’omicidio di uno dei loro diplomatici, arriva la potenziale svolta. Il tenente generale Somkid Boonthanom, a capo di una divisione regionale della polizia, è tra i cinque incriminati per l’omicidio di Mohammad al Ruwaili, l’investigatore saudita ucciso nel 1990. Somkid nega, ma il rinvio a giudizio sembra comunque un progresso. Peccato che a inizio settembre gli venga offerta la promozione a vicedirettore della polizia nazionale.
Riyadh protesta con un comunicato in cui neanche il linguaggio diplomatico riesce a dissimularne l’irritazione. Ma le autorità thailandesi, di fronte a un caso che riunisce tutti i peggiori stereotipi nazionali sulla corruzione delle forze dell’ordine e i loro intrecci con la politica, sembrano imperturbabili. Ai suoi cittadini, il governo di Abhisit Vejjajiva annuncia che il caso è risolto; incontrando l’incaricato d’affari saudita, il premier spiega invece che «forse Lei non possiede le informazioni corrette». Vengono invocate leggi contraddittorie, montagne di documenti da tradurre. La rabbia dei sauditi, invece di placarsi, monta. I visti di 13 mila musulmani del sud della Thailandia per il pellegrinaggio dell’Haji sono in sospeso «per cause tecniche».
Due giorni fa, l’ennesimo colpo di scena. Somkid, «per il bene delle relazioni tra i due Paesi», rifiuta l’incarico. Il vicepremier loda il suo «sacrificio». Ma è scontato che non finisca qui, e la prescrizione che incombe garantisce che la verità non emergerà mai. Quanto al diamante blu, facendo diventare il giallo una specie di romanzo onirico, l’Fbi thailandese ha anche avanzato l’ipotesi che non sia mai esistito. La maledizione che tocca chiunque gli si avvicini, quella però sembra esistere eccome.