ATTILIO BOLZONI, la Repubblica 23/9/2010, 23 settembre 2010
ARMI, COCAINA E MERCI CONTRAFFATTE QUEL PORTO CROCEVIA DEL CRIMINE
Da lontano sembrano uccelli predatori le gigantesche gru sospese nell´aria, quelle che servono a tirare su tre milioni di containers l´anno e poi farli sparire nella pancia dei mercantili. Hanno sempre avuto qualcosa di sinistro, di minaccioso, si stagliano fra il mare e il cielo e non fanno altro che caricare o scaricare soldi. Quei soldi. E per quella gente. Se una delle certezze malavitose della Calabria è l´autostrada che da Salerno scende a Reggio - il corpo di reato più lungo del mondo, 443 chilometri - l´altra è il porto di Gioia Tauro.
Intorno una volta c´erano gli ulivi più belli e maestosi del Meridione, con le radici affondate non nella terra arsa come in Sicilia o nelle Puglie ma nei prati umidi che in primavera erano sempre coperti da margheritine. Una volta. Li hanno abbattuti gli ulivi per coltivare kiwi dappertutto e costruire sopraelevate e camminamenti di cemento, un labirinto che conduce là: alle gru, alle banchine, all´unico luogo di questa regione dove non brucia mai niente, dove nulla esplode, dove nessuno minaccia e tutti pagano. La tassa di «sicurezza» è di un dollaro e mezzo a container, non importa per quale carico. Cocaina o mitragliere, rifiuti tossici o tritolo o scarpe e orologi made in China. Passa di tutto a Gioia Tauro. E tutti lì ci vogliono stare. Mafiosi e spioni di mezzo mondo (mediorientali, gli americani della Cia, quelli italiani buoni o cattivi), doganieri, mediatori di affari, sanguisughe. È sempre stato così. Tutto tranquillo. Uno Stato nello Stato. «L´assenza di attentati o danneggiamenti di alcun tipo nell´area del porto è il chiaro segnale di un controllo che non ha bisogno di prove di forza per continuare ad aumentare e consolidare il proprio potere», scriveva un paio di anni fa un funzionario prefettizio incaricato di presentare un dossier sul porto dei grandi misteri.
È sempre stato così da quando - agli inizi degli Anni Settanta - in questa pianura stretta fra il Tirreno e montagne scoscese doveva nascere un immenso polo siderurgico e poi invece i calabresi all´improvviso hanno visto una baia che era diventata «il più grande terminal per il transhipment del Mediterraneo», quasi settecento ettari di aree portuali, moli che si allungano e scompaiono fra le onde, capannoni luccicanti e sempre deserti, una città di duemila abitanti nel niente della Piana. Strade malridotte, sconce come la Salerno-Reggio, la linea ferrata che è quella di mezzo secolo fa, gli aeroporti - Lamezia e Reggio - troppo lontani. Per farlo, il porto, hanno drenato fondi statali e comunitari per 1500 miliardi di vecchie lire. Se li sono mangiati tutti.
Ma per fortuna che in Calabria c´è la ‘ndrangheta, per fortuna che c´è una criminalità mafiosa diffusa e con tanto potere e tanti legami, perché con i suoi boss il porto di Gioia Tauro alla fine è servito a qualcosa. Per la sua posizione innanzitutto. A poche ore di navigazione da Gibilterra da una parte e dal canale di Suez dall´altra, vicinissima a tutti i porti africani, l´approdo calabrese è diventato il punto ideale per i traffici dei narco trafficanti della Locride e di Rosarno e di Reggio. Quelli che da un paio di decenni hanno fatto amicizia e denaro (i soldi non li contano più con quelle macchinette che usano i banchieri ma pesandoli sulle bilance) con i Colombiani, con i Messicani e da ultimo con i Venezuelani. Quelli che dal 1991 non fanno più sequestri di persona - erano arrivati a 147 rapimenti - e hanno investito le loro ricchezze nella coca. Il porto di Gioia Tauro è arrivato come la manna dal cielo. Non c´è rotta del malaffare mondiale che ormai non passi da qui, dove c´erano quegli ulivi e adesso a pochi chilometri c´è la Rosarno Burning dei padronicini che davano la caccia ai neri in rivolta negli agrumeti. La coca ha cambiato tutto in Calabria. E anche Gioia Tauro ha cambiato tanto.
È sul fronte del porto che la Commissione parlamentare antimafia della passata legislatura ha voluto cominciare il suo lavoro d´inchiesta, è a Gioia Tauro che il presidente Francesco Forgione ha deciso di iniziare con le audizioni nelle terre di mafia, nella Piana delle illusioni e degli appetiti più inconfessabili, metafora di quello che poteva essere la Calabria e non è mai stata. La vicenda di Gioia Tauro è stata riassunta in poche righe nella relazione finale della commissione: «E´ dimostrato che la realizzazione del più importante investimento di politica industriale mai pensato per il Sud, era stato preceduto da un preventivo accordo fra una multinazionale e le cosche Piromalli-Molè, allora come oggi dominanti nella Piana.. «. Tutto controllato, direttamente o indirettamente dalla ‘ndrangheta. La gestione dello scalo, l´assegnazione dei terreni, la spedizione delle merci, lo sdoganamento dei containers. Il resto è venuto dopo.
Con Mommo Piromalli e i suoi rampolli, con i Molè, con i Pesce e con i Bellocco. E tutti i loro prestanome infilati nel grande affare dei containers, dei bastimenti che attraccano e che salpano, negli appalti che regolarmente e implacabilmente loro si prendono. Chi prova a mettersi in mezzo è morto. Ma non a Gioia Tauro, mai vicino alle gru e ai moli.
Anno dopo anno il porto ha offerto ai boss altre e più lucrose opportunità. Nel 2006 sono tornate di moda le «bionde», quindici tonnellate di sigarette che dal porto di Jebel Ali negli Emirati Arabi - via Gioia Tauro - sarebbero dovuti sbarcare in Croazia. Nel 2007 è stato scoperto un traffico di rifiuti speciali che era diretto fra la Cina, l´India e alcune città sulla costa magrebina. Nel 2008 nei container sono state trovate armi leggere hascisc. Ogni mese c´è la notizia che ormai non fa più notizia di un sequestro di cocaina. Grosse quantità, sempre. Una volta 72 chili, un´altra volta 124 chili, dall´inizio del 2009 sono 680 i chili di polvere che viene dal Sudamerica e che è finita negli uffici «corpi di reato» del Tribunale di Reggio. Chissà quanta altra ne passerà ogni giorno, e da anni. Chissà quanta altra ne solleveranno quelle gru alte trentacinque metri che pencolano nel vuoto. Che porto è mai questo di Gioia Tauro? Un porto aperto, un porto franco? O forse un porto italiano al servizio del crimine mondiale?