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 2010  settembre 23 Giovedì calendario

QUELLA PENA IN PIÙ PER I GENITORI DETENUTI - ’E

figlie so’ ppiezz’ ’e còre, dice Filumena Marturano. Ma «i cani contano più dei figli», si lamenta Girolamo, detenuto a Spoleto, in una lettera indirizzata al presidente della Repubblica e al ministro della giustizia. Con una buona dose di ironia, Girolamo rende «onore» ad Angelino Alfano per l’impegno profuso verso «Enrichetto», cinquantacinquenne piemontese con la passione per «la Barbera» e per il cane Pumin, suo unico affetto. Ad agosto, Enrichetto è passato dalla solitudine della sua vita al clamore delle cronache: condannato a due mesi di arresti domiciliari per aver pedalato ubriaco e provocato un incidente, è uscito da casa per comprarsi un salame al negozio di fronte e, beccato in flagrante, è stato spedito in carcere in attesa del processo per evasione. Dietro le sbarre aveva deciso di lasciarsi morire di fame. Soffriva di malinconia per Pumin, rimasto solo. Ma poi è intervenuto Alfano...

Un caso evidente di violazione della Costituzione, dirà il ministro in Parlamento, ricordando che la pena «non può essere contraria al senso di umanità». Giusto, scrive Girolamo, ma non senza amarezza: lui, i figli li ha visti una sola volta da quando è finito "dentro", perché non ha i soldi per farli viaggiare da Palermo a Spoleto; e anche ora che gli mancano pochi mesi al fine pena, in carcere gli hanno negato un permesso per incontrarli.

Certo, Girolamo non si è limitato ad alzare un po’ il gomito e poi a salire su una bicicletta. Enrichetto è un detenuto «comune», mentre lui appartiene alla categoria dell’«alta sicurezza». Ma se il cane è il miglior amico dell’uomo, i figli ’so ppiezz’ ’e còre. Tant’è che il Parlamento, proprio in questi giorni, è impegnatissimo ad approvare una riforma per migliorare i rapporti tra detenute madri e figli. Riforme destinate a restare sulla carta.

Le nostre riforme dicono che il carcere deve dedicare «particolare cura» a mantenere, «ristabilire» e, addirittura, «migliorare» le relazioni affettive dei detenuti. Perciò impongono, ad esempio, di far scontare la pena nel luogo più vicino agli affetti, di abbattere i «divisori» nelle sale-colloquio, di non creare il vuoto con l’esterno. Eppure, in molte carceri il bancone divisorio è ancora lì a scoraggiare qualunque forma di intimità; la maggior parte dei detenuti finisce in galere lontanissime dalla famiglia, causa sovraffollamento o, peggio, per punizione, sebbene sia vietato; a chi è solo, senza un marito, una moglie, un familiare, viene spesso negato un colloquio con un amico perché l’amicizia non è «un valido motivo». Questi "sovrappiù" di sofferenza non fanno parte della pena, che è solo privazione della libertà. La legge non li contempla. Anzi, li vieta. Che ci si chiami Enrichetto, Girolamo, Maria. O anche Mohammed.