Leonardo Maisano, Il Sole 24 Ore 22/9/2010, 22 settembre 2010
«IL MIO NOME È BOND, BIFFY BOND» - LONDRA
«Wilfred, Wilfred Dunderdale». Nonostante il capello impomatato, la camicia di ottimo taglio, l’auto sportiva con bionda al seguito, l’effetto non è lo stesso. Quel «James, James Bond» che, appena sussurrato, appare fra le labbra suadenti di Sean Connery quando introduce 007, è altra cosa. Né aiuta provare con «Biffy, Biffy Dunderdale», storpiatura bizzarra del più nobile Wilfred. Con i nomi non ci siamo, ma, nomi a parte, il più celebre agente segreto di Sua Maestà ha ritrovato i connotati di se stesso fra le carte polverose dei servizi segreti inglesi. E ha scoperto di non essere nato nella fantasia di Ian Fleming ma di aver visto la luce a Odessa, alla vigilia di un gelido Natale del 1899, figlio di un ingegnere navale britannico di stanza nel Mar Nero.
«Sciupafemmine, appassionato di auto, bon vivant e grandissima spia, questo fu Wilfred Dunderdale che ha riconosciuto pubblicamente di aver ispirato l’eroe di Fleming». Parola di Keith Jeffery, studioso di storia britannica all’università di Belfast, reduce da cinque anni di immersione totale negli archivi dei servizi segreti con il mandato esplicito di ricostruire la storia autorizzata dell’Mi6, ovvero lo spionaggio di Londra.
I primi quaranta anni di vita del più celebre gruppo di agenti segreti del mondo sono raccolti in 800 pagine pubblicate da Bloomsbury nella più clamorosa operazione-trasparenza mai avviata nel Regno di Elisabetta. Cadono veli su decenni di storia ed emerge, fra le brume di golpe orditi e qualche volta eseguiti, il profilo del giovane Biffy, alias 007. Tutto cominciò con l’occasionale nascita a Odessa e l’abilità nell’apprendere il russo senza alcuna inflessione britannica. Tanto gli bastò per servire la patria come interprete, per poi essere inquadrato a Sebastopoli come agente in missione ed essere spedito a Istanbul, grande scuola per i più giovani spioni britannici. Lì Biffy si fece le ossa per poi tornare in Russia e infine approdare a Parigi dove, fra corse in auto sul Bois de Boulogne e tappi di champagne, guidò per anni l’ufficio dello spionaggio inglese in Francia. Eppure il suo cuore ha battuto a lungo nella Mosca staliniana e non solo staliniana. «Fece da interprete a un generale russo "bianco" che si intratteneva amoreggiando con la sua amante inglese in una carrozza di un treno fermo» ha scoperto Jeffery. Biffy fuori, al freddo dell’inverno moscovita traduceva quegli scambi di passione occasionale, parola per parola. Missione adolescenziale prima di dover interrogare, impegno assai più serio, il primo rifugiato politico russo, Boris Georgevich Bajanov, assistente di Stalin in fuga a Occidente.
Fu questo Biffy/James. Tutto questo e molto altro raccontò a Ian Fleming insinuando nella testa dell’amico l’idea di Goldfinger e Dr No. Ma Biffy parlò forse anche di altri. Certamente di Sidney Reilly, nato Shlomo Rosenbaum, l’asso delle spie inglesi, evaso dalla Lubjanka e impegnato in una battaglia personale contro il regime comunista, tanto personale da essere cacciato dall’Mi6. Perché fu messo alla porta? «La licenza di uccidere - ricorda Keith Jeffery - è un vecchio mito non è mai esistita, ma Sidney Reilly forse pensava di averla». Per eliminare la leadership russa. Troppo anche per i servizi britannici abili nel muoversi con tutti per il solo bene di Londra. Lo fecero anche in Italia. «La collaborazione con i partigiani comunisti e non fu eccellente durante la seconda guerra mondiale - ricorda Jeffery - non a caso a Bari c’era una sede importante dell’Mi6». In realtà l’entente cordiale fra partigiani "rossi" e i resident britannici in Italia durò poco. «Poco prima della caduta di Roma nel 1944 - ricorda lo storico - Palmiro Togliatti fece ritorno da Mosca. Ordinò di allontanare il rappresentante dei servizi britannici, ma promise lo scambio di informazioni su questioni militari. Pochi mesi più tardi quando fu evidente che i tedeschi erano stati battuti, Togliatti decise la fine di qualsiasi rapporto con l’Mi6».
Occasionalmente altri continuarono a collaborare ma i giorni della collaborazioni anglo-italiana erano finiti. E anche per Biffy Dunderdale le luci di Parigi si andavano spegnendo. Gli toccò Varsavia, a fine carriera. Infine, novantenne, morirà a Londra. Sopravvissuto di due anni a quello che fu, idealmente, il suo più acerrimo nemico: il doppiogiochista Kim Philby, vedette del ring filo-comunista di Cambridge che tanti guai creò agli 007 dell’Mi6.