Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 22/9/2010, 22 settembre 2010
IL GOLFO SI ARMA CONTRO TEHERAN
Non bastano le portaerei della quinta flotta in Bahrein, il comando del terzo corpo d’armata in Qatar, le oltre trenta basi navali e aeree disseminate tra mare e deserto in Kuwait, Arabia Saudita e Oman, e neppure l’Aegis, il nuovo scudo di incrociatori antimissile voluto dal generale David Petraeus quando era ancora comandante del Centcom di Doha: le petromonarchie del Golfo vogliono rafforzare i loro apparati difensivi anti-iraniani e hanno ordinato all’industria bellica americana oltre 120 miliardi di dollari di forniture che verranno consegnate in quattro anni. La parte del leone è dell’Arabia Saudita con 67 miliardi, seguita dagli Emirati (35-40), dall’Oman (12) e dal Kuwait (7). Sono passati 65 anni da quando il presidente Roosevelt e il sovrano wahabita Ibn Saud si incontrarono nel canale di Suez a bordo dell’incrociatore Quincy, ma il patto di ferro tra Stati Uniti e Arabia Saudita da allora viene continuamente rinnovato: sicurezza contro petrolio.
Questa è la terza corsa agli armamenti nel Golfo, la seconda innescata dalla minaccia iraniana. La prima fu ingaggiata con il sostegno economico alla guerra scatenata nel 1980 da Saddam Hussein contro Khomeini: le monarchie sunnite del Golfo, dove si trovano due terzi delle riserve accertate di petrolio, temendo un’espansione dell’Islam sciita rivoluzionario che poteva mettere in pericolo gli equilibri interni, finanziarono per otto anni l’arsenale del rais iracheno con 50miliardi di dollari. La seconda corsa al riarmo avvenne dopo l’invasione del Kuwait nell’agosto 1990: minacciati direttamente da Saddam, i sovrani dell’oro nero furono costretti a ricorrere agli americani per liberare nel ’91 l’emirato e si dotarono di armamenti sofisticati come missili Patriot e cacciabombardieri.
Adesso è ancora l’Iran, con le aspirazioni nucleari di Ahmadinejad e un’invadente politica estera mediorientale, dal Libano, alla Palestina all’Iraq, a far riaprire gli arsenali: con questa escalation di acquisti, sauditi ed emirati, riuniti nel Consiglio di Cooperazione, rappresentano ormai il 60% di tutte le spese militari del Medio Oriente Le monarchie del Golfo temono ritorsioni di Teheran in caso di attacco israeliano o americano e intendono comunque attuare una politica di deterrenza. Finora Riad ha dichiarato che non appoggerà operazioni militari contro l’Iran, anche se le cose potrebbero cambiare se Teheran decidesse un eventuale esperimento nucleare. In realtà i paesi del Golfo intrattengono con l’Iran rapporti ambigui: gli emirati come Dubai mantengono un forte interscambio commerciale e finanziario e vi sono periodicamente reciproche visite di alto livello, con commenti rassicuranti sulle pacifiche intenzioni del programma nucleare iraniano.
Gli Stati Uniti colgono intanto un duplice obiettivo: in tempi di crisi economica fanno lavorare la loro industria bellica e allo stesso tempo delineano una struttura di sicurezza nel dopoguerra iracheno che serve a contenere la repubblica islamica e a garantire la sicurezza dei flussi di petrolio. La maggior parte delle commesse riguarda nuove versioni dei caccia F-15 della Boeing, sistemi radar e anti-missile come i Patriot della Raytheon: la posta strategica in gioco è la supremazia area nel Golfo, con le petromonarchie chiamate a gestire direttamente una parte dello scudo difensivo. Qualche briciola delle commesse viene lasciata pure ai francesi che venderanno agli Emirati i Rafale della Dassault.
Gli ordini più interessanti, non solo per quantità, sono quelli dell’Arabia Saudita che vuole dotarsi di elicotteri e armamenti anti-guerriglia. Riad, insieme agli Stati Uniti, è il maggior fornitore di armi dello Yemen, il paese più traballante del Golfo, dove il radicalismo islamico di al-Qaeda mette a rischio il regime del presidente Saleh. L’Arabia Saudita poi è stata direttamente impegnata nei combattimenti contro gli Houti, movimento islamico in rivolta contro Sana’a ma attivo anche nella propaganda tra gli sciiti del regno wahabita. L’anno scorso, per la prima volta nella sua storia recente, l’esercito saudita, appoggiato dall’aviazione, ha attraversato i confini del regno per muovere guerra agli Houti. I risultati di questa campagna militare, durata alcuni mesi, non sono stati esaltanti: i sauditi hanno messo a nudo preoccupanti limiti di organizzazione. L’immobilismo economico e sociale che caratterizza la monarchia, oggi colpita da una disoccupazione all’inedito tasso del 10%, si è riflesso anche sulla macchina militare: con i petrodollari si comprano armi sofisticate ma non la capacità di combattimento.