Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 23/09/2010, 23 settembre 2010
CHIESA E STATO IN ITALIA TROPPE INVASIONI DI CAMPO
Sul Corriere del 10 settembre lei critica sia la Chiesa che gli Stati perché nei loro rapporti si fanno guidare dalla convenienza e dalla ricerca di affermare i loro diritti. Non vedo perché scandalizzarsi per questo braccio di ferro. Stato e Chiesa sono due istituzioni diverse per finalità, ma destinate a una continua interazione in quanto ambedue interessate alla stessa società umana nella quale si trovano ad operare pur nella diversità degli ambiti. Da una parte quello della politica, ovvero di ciò che è opinabile e negoziabile, e dall’altra quello della etica che non è negoziabile. Converrebbe piuttosto trovare caso per caso il modo di risolvere questi conflitti. E il modo consiste appunto nella distinzione degli ambiti e nell’applicazione caso per caso del tanto reclamato, quanto poco applicato, principio di laicità che richiede di dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. Specie se ci si proclama laici.
Giuseppe Sesta
gsesta@alice.it
Caro Sesta, la separazione degli ambiti è iscritta nell’art. 1 del Concordato del 1984: «La Repubblica italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti e alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese». Questo significa a mio avviso che nessuno dei due ha il diritto d’interferire nei meccanismi istituzionali dell’altro. Può affermare e argomentare pubblicamente i propri principi e valori, ma non può entrare nella stanza dei bottoni e scegliere il manovratore che più gli conviene. Non si può pretendere che la Chiesa abbia un Papa piuttosto che un altro, come accadde nel 1903 quando l’Austria mise il veto all’elezione del cardinale Rampolla. Non si può condizionare la scelta di un vescovo all’approvazione dell’autorità civile, come pure accadde per molti secoli in Europa. Ma la Chiesa non può, a sua volta, intervenire nelle scelte elettorali dei cittadini o addirittura dare indicazioni di voto ai parlamentari cattolici.
Il primo caso si verificò, tra l’altro, quando il cardinale Ruini, presidente della Conferenza episcopale, esortò gli elettori a disertare le urne per evitare che il referendum sulla procreazione assistita raggiungesse il quorum. Il secondo risale al governo Prodi del 2006, costituito con un programma elettorale che prevedeva un patto di convivenza per omosessuali simile a quello della Francia. Il disegno di legge fu approvato dal Consiglio dei ministri nel febbraio del 2007, ma la Conferenza episcopale intervenne subito con dichiarazioni che lasciavano prevedere un intervento formale. Uno storico cattolico, Giuseppe Alberigo, cercò di evitarlo con un appello pubblico in cui scrisse che «con un atto di questa natura l’Italia ricadrebbe nella deprecata condizione di conflitto tra la condizione di credente e quella di cittadino».
Le parole di Alberigo ricevettero molti consensi, ma la Conferenza episcopale, con una nota del 27 marzo, dichiarò che «la legalizzazione delle coppie di fatto era inaccettabile» e aggiunse: «Nessun politico che si proclami cattolico può appellarsi al principio del pluralismo e dell’autonomia dei laici in politica, favorendo soluzioni che compromettano o che attenuino la salvaguardia delle esigenze etiche fondamentali per il bene comune della società. Sarebbe incoerente quel cristiano che sostenesse la legalizzazione delle unioni di fatto». Il parlamentare cattolico aveva quindi il «dovere morale di esprimere chiaramente e pubblicamente il suo disaccordo e votare contro qualsiasi progetto di legge che possa dare un riconoscimento alle unioni gay». Queste affermazioni non sono, compatibili, a mio avviso, con l’art. 1 del Concordato del 1984.
Sergio Romano