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 2010  settembre 23 Giovedì calendario

LE PIUME, LE FIDANZATE, LO ZIO COMUNISTA «I MIEI 60 ANNI DI SCANDALI E AMORI» - A 15

anni ballava una sera per Jimi Hendrix e un’altra per Rita Pavone. A 20 era il fidanzato di Enrica Bonaccorti. A 25 sconvolgeva l’Italia molto cattolica e molto comunista di metà anni ’70 travestendosi e cantando Mi vendo e Il triangolo no. Ha amato ed è stato amato da generazioni di italiani: «Ogni tanto un ragazzo scappava di casa e la polizia veniva alle 5 del mattino a cercarlo nel mio letto». Tra una settimana Renato Fiacchini — «il nome Zero lo scelsi con Gianni Boncompagni» — ne compie sessanta.
«Mio padre era un poliziotto. Abitavamo in un grande condominio di periferia, alla Montagnola, con 163 famiglie di poliziotti. Io uscivo di casa in jeans e camicia, con i trucchi e i costumi in una borsa, e mi cambiavo negli androni. Nel primo il boa con le piume di struzzo, nel secondo la stivalata, nel terzo gli strass. I colleghi di papà mi puntavano. Finivo regolarmente al commissariato di Campo Marzio, dove lui lavorava. Lo apostrofavano: «Non ti vergogni ad avere un figlio così?». Ma lui non si è vergognato mai. Mi veniva a prendere: «Renatì, ’nnamo a casa».
«Casa non era sempre stata alla Montagnola. Sono nato in via Ripetta. Il centro di Roma allora era molto promiscuo. Ci stavano calzolari, ombrellari, bottari che facevano botti e fiaschi, e carbonari, perché avevamo il riscaldamento a carbone. E ci stavano le grandi famiglie papaline, gli Odescalchi, i Torlonia, i Del Drago: quando traslocavano, vedevi passare mobili meravigliosi. Poi la mia casa fu comprata in blocco dall’ospedale San Giacomo. Così ci cacciarono in borgata. Ho impiegato tutta la vita a tornare in centro. Qualche anno fa ho comprato vicino a piazza del Popolo; ma non riuscivo a viverci. Solo boutique, neanche una panetteria: mica potevo magnamme ‘e scarpe de Prada. So’ scappato. Ora vivo alla Camilluccia, con mio fratello Giampiero e mia sorella Maria Pia. Vicino a mio figlio adottivo, Roberto Anselmi Fiacchini».
«Andò così. Ero al cinema, e noto questo ragazzino. Era pettinato come Bart Simpson. E mi regalò un pupazzetto di Bart Simpson. Mi raccontò la sua storia: il padre era morto, la madre malata. Sono sempre stato vicino ai ragazzi degli orfanotrofi. Cominciai a seguire Roberto. Quando fu possibile, lo adottai: la legge consente anche ai single di adottare, se il figlio è maggiorenne e non ha più i genitori. Roberto si è sposato con Manuela e hanno due bambine. La grande si chiama Virginia, la piccola Ada, come mia madre. Fare il nonno è delizioso. Fare il padre è più difficile. Ma a poco a poco sono riuscito a ricreare una famiglia numerosa, come quella in cui sono cresciuto».
«Mio padre, figlio di pastori marchigiani, aveva dieci fratelli. Il più importante per me è stato lo zio prete, don Pietro. Andavamo in vacanza a Esanatolia, nella sua parrocchia, e io gli facevo da chierichetto, servivo messa. Credo profondamente in Dio. Papà ha studiato in seminario, io dalle suore. Sono al mondo grazie a un frate, che mi ha donato il sangue: sono nato con l’Rh negativo e ho avuto subito bisogno di una trasfusione. Ho amato molto Wojtyla, un grande uomo. Ratzinger invece è un Papa. Ho cantato contro l’aborto: se lo vediamo come l’ultimo degli anticoncezionali, è un disastro. Vado a messa dai sacerdoti che stimo, come padre Augusto Matrullo, il rettore della basilica dei santi Giovanni e Paolo a Roma: è stato lui a benedire l’urna di Marcella, il portiere del Piper, che aveva scelto di diventare donna. In famiglia eravamo poveri. La sorella gemella di mio padre morì di broncopolmonite. Lui entrò in polizia, ma sognava di fare il baritono. Adorava l’opera, compresi i costumi di scena. Forse per questo è sempre stato così comprensivo con me».
«Altri nel quartiere lo erano meno. Mi vedevano e mi gridavano dietro qualsiasi cosa, ma io li affrontavo: "Perché mi dici così? Che cosa ti ho fatto?". Allora si schermivano: " Nun so’ stato io, è stato lui...". Ma un giorno un tizio mi tirò uno sganassone, così, senza neppure parlare, e mi lasciò tramortito. Una sera andai a cantare a Monte Compatri, ai Castelli, credo fosse una sagra della salsiccia. Presi un sacco di insulti. A vedermi c’erano mia sorella Enza e il suo fidanzato. Riportandola a casa, lui le disse: "Certo che quello lì è strano forte...". E lei: "Quello lì è mi’ fratello, e se nun te sta bbene, tra noi è finita". Si sposarono. Je stavo bbene». Adriano Panatta ha raccontato l’imbarazzo della sera in cui andò a prendere con la spider in piazza Venezia un amico della sua fidanzata, Loredana Bertè. Era vestito da angelo: Renato Zero. «Se vuoi che si accorgano di te, devi scuoterli. E di me si sono accorti. Il lavoro più bello del mondo è il marciapiede. Riportare a casa un tossicodipendente è una cosa meravigliosa, che ti ripaga di tante altre».
I suoi amori? «Con Enrica Bonaccorti è stato un lungo viaggio affettivo insieme. Lucy Morante mi amava al punto da vendere i miei dischi fuori dai concerti. Si è presa un sacco di gavettoni per me, e non metaforici. Il Piper era in un quartiere borghese, il Salario. Ci odiavano. Passavano vecchine eleganti, adorabili, e ci gettavano addosso buste piene d’acqua. Poi è arrivato il successo, e ha reso tutto ancora più difficile. Per uscire di casa dovevo nascondermi nel furgone della lavanderia, tra le robe sporche». Amori maschili? «Presto uscirà una canzone in cui risponderò definitivamente a questa domanda, che mi ha stancato. Ognuno lasci aperta la porta, non si chiuda gli orizzonti, non si appiccichi da sé etichette che la vita potrebbe smentire. Non mettiamo limiti alla provvidenza. Conosco uomini con quattro figli che la sera si truccano pesante e vanno al Colle Oppio sui tacchi a spillo. L’importante è essere sempre aperti all’amore. Pensare solo al tuo benessere fa di te un miserabile, o un benestante: condizioni cui non aspiro». Il triangolo no. «Era la ricerca di un’identità, che giustifica errori, malintesi, contrattempi. La trasgressione è la timidezza che si maschera. È la valvola di sfogo della disperazione, che ti evita il manicomio, la casa di recupero». Mi vendo. «Non mi sono mai venduto. Anche se mi volevano comprare in tanti, e ricchi». La droga. «Era merce d’importazione, non romana. Roba da attici, non da mezzanini. C’era gente che fumava ancora l’oppio. La coca era inarrivabile».
«Pasolini mi faceva paura. In borgata giravano voci cattive su di lui, lo raccontavano come un depravato, un pervertito. Però c’era chi gli voleva bene. Ho capito Pasolini solo quand’è morto, in quel modo così coerente con la sua vita. Fellini era affettuoso. Gli chiesi di recitare nei suoi film. Lui mi accarezzò l’ovale e mi disse: "Renatino, tu qui sei sprecato". Ma che sprecato, famme lavorà! Così mi fece lavorare in Satyricon e in Casanova. Si girava sempre di notte. Poi facemmo la versione italiana di Hair, con Loredana, Mimì e Teo Teocoli. Al Piper c’era anche Christian De Sica, con cui sono amico da quando avevamo 17 anni perché gli riconosco una grande qualità: è sempre stato Christian; non è mai stato De Sica». L’immagine dei sorcini gli venne da un nugolo di moto che correvano attorno alla sua macchina. «Un sorcino ora è il presidente di una banca, un altro è un alto magistrato di Milano. No, niente nomi. Un medico mi ha visitato e, dopo che mi ero rivestito, si è rivelato: "Finalmente sono riuscito a toccarti...". Mi vogliono bene anche ora che sono cambiato, da quando nel ’91 a Sanremo ho deciso che i lustrini mi stavano stretti. La chirurgia estetica, però, mai. Ho fatto una sciocchezza, farmi togliere il doppio mento dall’ex marito della Santanché. Basta così. Già è pieno di gente con il parrucchiere privato; l’imbalsamatore privato mi pare troppo».
Nel mondo dello spettacolo si racconta di quando la Bertè stava per accasarsi con un miliardario, finché una sera, nel ristorante di New York dove cenava in tailleur con i futuri suoceri, entrò Renato Zero, vestito da Renato Zero... «È stata colpa mia, è vero. Ma alla cena ero invitato. E non fu una questione di look. Il "suocero" era un benestante che parlava male dell’Italia. E quando io all’estero sento parlare male del mio paese, non ci vedo più. Loredana si schierò con me». Lei cosa vota? «Spesso non voto. Non ho stima di nessuno, sono fermo a Gramsci e Einaudi. Vengo da una famiglia di comunisti. Mario Tronti è mio zio: figlio di Nicola, il fratello di mia nonna Renata. I suoi genitori avevano il banco ai mercati generali, si alzavano alle 4 di mattina. Andavo a trovarlo nella sua casa sull’Ostiense. Ricordo una piccola stanza foderata di libri, questo ragazzo più vecchio dei suoi anni; ero così fiero di lui. Per me il comunismo era questo: un padre che torna a casa dal lavoro, mette in tavola un pane e un fiasco d’olio, e con quel che ha risparmiato compra un libro a suo figlio. Oggi questi c’hanno la barca e l’ossessione per la poltrona. Litigano, ma non per la politica; per l’ego. E fanno i soldi. Fa politica solo chi ha i miliardi. Per entrare in Parlamento, un operaio deve bruciare alla Thyssen. In compenso vedi molti sindacalisti. A me comunque il Pci non m’ha mai voluto. Gli altri suonavano alla festa dell’unità con le loro band; io giravo i locali con il registratore, pigiavo play e cantavo, solo come un cane. La sera del 24 dicembre 1974, al Folk Rosso, suonai per un unico spettatore, che poi si sentì pure Venditti. Ho maturato la pensione: 800 euro al mese. Una presa in giro. Le darò a chi ne ha bisogno davvero. Ho il passaporto intonso: la mia Nuova Zelanda, il mio Oklahoma, la mia Namibia sono stati i palcoscenici d’Italia. Eppure, con tutto quel che ho lavorato, cosa mi ha dato il mio paese? Niente. Manco una croce di cavaliere». Davvero lei, Renato Zero, l’uomo con i lustrini, vorrebbe una croce da cavaliere? «Sì. Ne sarei onorato. Embé?».
Aldo Cazzullo