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 2010  settembre 23 Giovedì calendario

«TROPPE VOCI ATTORNO A UNICREDIT, ALLA BANCA SERVIVA UN NUOVO LEADER» —

«Alessandro Profumo ha reso grande questa banca. Se siamo un istituto internazionale, paneuropeo, lo dobbiamo al suo grande lavoro. Non è stato facile arrivare alla separazione. Ma era necessario un cambiamento di leadership. Le strategie non cambiano. E nel giro di qualche settimana avremo un sostituto adeguato a quella grande banca che è Unicredito». Dieter Rampl è appena andato in onda sulla tv intranet della banca, che raggiunge tutti e 22 i paesi dove Unicredit è presente. Il numero uno fresco di deleghe operative è apparso in video affiancato dagli ormai ex «Profumo boys», i viceammi-nistratori delegati Roberto Nicastro, Paolo Fiorentino, Federico Ghizzoni e Sergio Ermotti. E’ a corto di sonno forse, ma è deciso a far capire che nonostante il lungo consiglio di amministrazione che è arrivato a decidere la sfiducia al manager che ha guidato il gruppo negli ultimi quindici anni, la «stabilità», la «continuità» e l’«indipendenza» dell’istituto non sono a rischio.
Un messaggio a quei 165 mila dipendenti che in questi giorni hanno vissuto nella baraonda di voci e indiscrezioni che stava rischiando di paralizzare la banca.
Presidente Rampl a molti l’epilogo è apparso come una cacciata di Profumo.
«No, non si è trattato di questo. Vede, la decisione assunta ieri dal consiglio di amministrazione non è "contro" una persona. Ma una scelta per la banca.
Il consiglio è giunto alla conclusione che dopo quindici anni i tempi erano maturi per un cambiamento nella leadership».
Ma tutto è sembrato precipitare in pochi giorni...
«Al contrario, la rapidità della decisione è stata importante per ridurre il danno che la febbrile circolazione di voci e indiscrezioni stava causando all’azienda e alle persone che ci lavorano. Il vulcano in eruzione andava fermato».
Però non c’è il nome di un successore. Non è questa un’anomalia?
«E’ chiaro che la normalità sarebbe stata avere un ricambio contestuale. Ma troppe illazioni erano circolate.
Troppi scenari fantasiosi erano stati costruiti per permettere che una banca così radicata in Italia, ma anche così internazionale, potesse continuare a subire».
E allora? Quanto a lungo dovrà stare Unicredit senza un amministratore delegato?
«Il meno possibile. Questione di settimane al massimo. Non creda che non sia mio interesse procedere più che in fretta».
Avete un identikit, un profilo del candidato? Profumo non è certo facile da sostituire.
«Posso dirle che lo screening sarà condotto su figure scelte all’interno, ma anche all’esterno del gruppo».
Mi scusi il passo indietro, ma solo sei mesi fa lei ha difeso Profumo dalle Fondazioni che volevano la sua testa. Cosa è cambiato?
«Nel corso del tempo si sono accumulate distanze che non erano più sanabili». Ma su cosa? «Sono legato a un impegno di riservatezza e non intendo violarlo».
Eppure lei ai dipendenti ha parlato di visioni diverse sulla governance. «Questo è innegabile». Quindi visioni diverse tra lei e Profumo.
«No, non è una questione personale. E’ stato il consiglio a prendere una decisione».
Una decisione forte dopo quindici anni nei quali l’amministratore delegato ha reso grande l’ex bin. Una banca che non ha mai smesso di crescere.
«Nessuno mette in discussione, men che meno io, che Profumo sia l’artefice di una grande e importante storia. Ha reso europea Unicredit radicandola al tempo stesso sul territorio. Un modello che fin che ci sarò io non sarà toccato. Questa è una banca internazionale e indipendente».
La politica però non è stata estranea, basta leggere le dichiarazioni di questi giorni.
«Un conto sono le parole, un altro influire sulle scelte. Abbiamo un consiglio composto da 23 persone che provengono da realtà di grande rilevanza nazionale e internazionali, dalle Fondazioni italiane, a gruppi come Allianz, aziende come Daimler (quest’ultima non è azionista, ndr). Tutto questo fa del nostro board uno dei consigli dallo standing, mi permetta un po’ d’orgoglio, più elevato in Italia e in Europa. Sbaglia chi pensa che la politica possa determinarne le scelte».
Eppure il leader della Lega Umberto Bossi ha lanciato l’allarme sul fatto che la banca possa diventare preda dei tedeschi.
«Forse è poco noto ma io sono austriaco, intanto. Posso dirle però che se fossi un investitore con tanti soldi, li impiegherei sicuramente in una banca così radicata in Italia e in Europa. Ma siamo una grande banca. E le assicuro che non è facile scalarci».
Non c’è solo Bossi ma anche il sindaco di Verona, Flavio Tosi...
«Mi permetta, Tosi, come altri amministratori locali non sono azionisti della banca». Ma le Fondazioni da loro indicati sì. «Le ripeto: pensare che un consiglio di livello così alto si faccia influenzare è fargli un torto».
Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti è preoccupato però per la vacazio dell’amministratore delegato e, secondo i giornali, irritato dalla vicenda.
«Se così è mi dispiace molto. Se il ministro Tremonti vorrà e potrà, io sono assolutamente a disposizione per spiegare e chiarire ogni cosa a cominciare dal fatto che tutto è avvenuto nel solo ed esclusivo interesse della banca».
Anche la Banca d’Italia ha sottolineato l’importanza di un assetto di vertice completo in tempi brevi.
«E a ragione. Ma voglio ribadire che è anche grazie a Profumo, che peraltro negli ultimi mesi ha avuto impegni internazionali di peso (è presidente della Federazione delle Banche europee, ndr), Unicredit è perfettamente in grado di andare avanti. C’è un gruppo di manager affiatato, un team di eccellenza che si articola in 22 Paesi. Alessandro non si occupava certo del "giorno per giorno"».
Si sono lette ricostruzioni sul ruolo, della politica del governo, persino del presidente delle Generali Cesare Geronzi...
«Ho letto tante cose fantasiose non per questo, mi scusi se glielo dico, sono intenzionato a farmi impressionare da ricostruzioni che mi paiono, ripeto, fantasie».
Non vorrà dirci che anche sulla Libia non è successo niente?
«Corretto, la Libia come investitore non è mai stata un problema. Semmai le modalità di ingresso di nuovi soci hanno aperto riflessioni importanti».
Ci eravamo fatti l’idea che l’ascesa dei fondi di Muammar Gheddafi nel capitale della banca fosse, a torto o a ragione, l’imputazione numero uno all’amministratore delegato
«C’è stato un gran polverone destabilizzante. E’ per questo che dovevamo prendere una decisione rapida».
Ma lei sapeva oppure no del blitz di agosto del fondo libico che ha acquistato il 2,5% della banca? L’ambasciatore della Libia a Roma, Hafed Gaddur, sostiene di sì.
«È stato nell’aprile del 2009 che, incontrando Profumo e me, il governatore della Banca Centrale della Libia, Farhat Omar Bengdara, ha manifestato un "interesse generale" nell’Unicredit. La Banca di Tripoli aveva già sottoscritto i cashes e acquistato titoli sul mercato. Con Alessandro ne abbiamo parlato in seguito, io ho espresso qualche contrarietà sull’eventuale superamento della soglia del 5%. Ma poi non ho più saputo nulla e non avevo la minima di idea che il fondo sovrano stesse comprando».
Gli impegni assunti con l’Antitrust al momento dell’acquisizione di Capitalia, le impongono fino a che siederà anche in Mediobanca, della quale lei in virtù della quota da primo socio è vicepresidente, di non partecipare ai consigli di Unicredit nei quali si parla di assicurazioni o investment banking. Sarà un problema nelle prossime settimane?
«L’interim sarà così breve che non ci saranno problemi. Certo, un tempo più lungo non sarebbe accettabile».
Anche se tornano con una certa regolarità le voci di una fusione tra Mediobanca e Generali...
«Non ne ho riscontro. E le anticipo la prossima domanda: la partecipazione in Mediobanca? È strategica, non la venderemo».
Paola Pica