Ste. Fel., il Fatto Quotidiano 23/7/2010, 23 luglio 2010
DIMENTICATE I DIVIDENDI
Fuori dai retroscena, delle pressioni della politica, del caos in cui si sono consumate le dimissioni dell’amministratore delegato, Unicredit ha un problema: il mondo in cui si muoveva è cambiato. Ed è questo che ha portato alla fine dell’era di Alessandro Profumo. Lo spiega Marcello Messori, docente a Tor Vergata, e a lungo presidente dell’Assogestioni, associazione di categoria dei fondi comuni di investimento.
Professor Messori, cosa sta succedendo a Unicredit?
Unicredit è stato un gruppo
bancario molto innovativo tra la sua costituzione, 1997, e l’acquisizione della seconda banca tedesca Hvb, nel 2005. Condividendo in questo una caratteristica di buona parte del settore bancario italiano, Unicredit aveva e ha una struttura proprietaria in cui le fondazioni hanno un peso rilevante. Pur con queste peculiarità, era uno dei pochi gruppi con un azionariato diffuso. In tutte le public company c’è un delicato equilibrio tra proprietà e management e sembra che questo equilibrio abbia retto finché il gruppo era in grado di assicurare dividendi ai suoi azionisti. Quando, per colpa della crisi, è venuto meno sono cominciate le tensioni.
Ma di dividendi se ne vedranno pochi anche nei prossimi anni.
Il ritorno ai rendimenti del passato sarà problematico. Per un fatto oggettivo di sistema. E quindi la governance del gruppo bancario deve trovare un nuovo equilibrio. Unicredit è un gruppo bancario fondamentale per il settore finanziario di questo Paese e quindi l’unico auspicio è che possa riprodurre la capacità innovativa che ha avuto fino al 2005. Per la specializzazione del settore italiano bancario, gli effetti della crisi si fanno sentire con un ritardo rispetto alla crisi finanziaria. Le nostre banche hanno un modello di business molto tradizionale, incentrato sul finanziamento alle imprese e sulla gestione del risparmio delle famiglie. Per questo tipo di specializzazione è molto più rilevante la crisi dell’economia reale che determina un aumento delle sofferenze sui crediti.
Le fondazioni, che hanno bisogno di dividendi per le proprie attività, riusciranno ad adattarsi a questo nuovo contesto?
Negli anni Novanta ero stato molto critico sulla presenza delle fondazioni nella struttura proprietaria nelle banche. Ora prendo atto che si tratta di una delle poche categorie di investitori istituzionali, sia pure anomali, in questo Paese. Pur avendo la struttura proprietaria di questo tipo, il settore bancario è uno di quelli che ha realiz zato l’evoluzione più significativa fino al 2005-2006. Cioè si può dire almeno che questa struttura proprietaria non ha impedito un’evoluzione positiva. Se possa funzionare in questo nuovo contesto, lo vedremo. Ci sono delle innovazioni di governance che potrebbero facilitare il problema.
Che cosa intende?
Mi sembra che le fondazioni di origine bancaria potrebbero per esempio rendere più significativi e trasparenti i loro bilanci. Questo potrebbe avvicinarle agli investitori istituzionali e consentire loro di svolgere un ruolo più efficace in termini di governance. Ormai è troppo tardi per chiedersi se sarebbe stato possibile avere un’altra struttura proprietaria delle banche.
Gli investimenti dei fondi libici in Unicredit dimostrano però che con le banche provate dalla crisi si rischia l’arrivo di capitali stranieri a complicare gli equilibri. Non ho informazioni specifiche sul fatto se la presenza del fondo sovrano libico leda o meno lo statuto proprietario di Unicredit. Detto questo, non va esteso il discorso agli altri fondi sovrani che sono investitori istituzionali, che vanno valutati come gli altri investitori istituzionali in base alla loro governance. L’Italia ha il problema opposto, che attrae pochi investimenti dall’estero.