Luca Tomassini, il manifesto 22/9/2010, 22 settembre 2010
NUMERI SENZA LIMITI
«Vuole farmi domande di natura filosofica sulla matematica? La avverto subito che non ho opinioni particolari a riguardo». Meglio cambiare discorso con Isadore M. Singer, nato a Detroit nel 1924, uno dei maggiori e più influenti matematici degli ultimi sessant’anni. Premio Abel nel 2004 insieme a Michael F. Atiyah per il celeberrimo Teorema dell’indice, Singer guarda alla sua disciplina come a qualcosa di vivo, dai contorni mobili, irriducibile a caratterizzazioni definitive. Attualmente docente al Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston, Singer ha insegnato nei più prestigiosi atenei americani e, precisa, anche in varie università pubbliche. Quasi non si contano i riconoscimenti attribuitigli e gli incarichi istituzionali ricoperti per le maggiori istituzioni scientifiche così come per il governo Usa. In particolare dall’82 all’88 Singer è stato parte del White House Science Council, ovvero è stato consigliere scientifico dell’allora presidente Ronald Reagan. Lo abbiamo incontrato nei giorni scorsi a Roma, dove ieri gli è stata conferita la laurea honoris causa dall’università di Tor Vergata.
Si sostiene spesso che la matematica sia fatta di due elementi in instabile convivenza, logica e intuizione. Qual è la sua esperienza diretta?
Mi definisco un geometra, e la geometria è a mio parere in primo luogo intuizione. Quando durante una conferenza sento qualcosa di interessante, subito mi dico: è così che deve essere! A volte sbaglio, ma molto spesso ho ragione. La logica viene dopo e anche se il tempo necessario a dare una dimostrazione può essere incredibilmente lungo continuo a pensare che non sia la cosa più importante, fermo restando che essa resta l’unica garanzia di avere raggiunto ciò che a un matematico interessa: la verità. D’altronde queste distinzioni sono spesso arbitrarie, la logica non è solamente calcolo: spesso è proprio la comprensione di una dimostrazione a fornire nuove intuizioni. Ma soprattutto è la stessa nozione di prova ad avere diversi significati: il caso in cui questa sia ottenuta con un computer, per esempio, è ancora oggetto di discussione. C’è però un motivo per cui l’intuizione può essere pericolosa per un matematico: in alcuni di noi questa facoltà può essere sviluppata al punto che capita di «sentire» di avere ragione senza che ci si renda conto di non avere una dimostrazione. Questo può rendere difficile la comunicazione e l’individuazione degli errori. Infine, essa può impedire di apprezzare importanti novità nella notazione matematica.
Il modo in cui si scrivono le formule e si espongono i teoremi è dunque così importante?
Assolutamente sì, e ricordo che questo è un aspetto cruciale dell’importanza della «dimostrazione». Non si tratta di semplici riformulazioni, ma di guardare le cose da un diverso punto di vista. Quando ero studente a Chicago André Weil, il celebre matematico francese e fratello di Simone, tenne un seminario nel quale esprimeva in una forma ancora poco conosciuta e straordinariamente generale e compatta alcune nozioni familiari a un qualunque studente di primo o secondo anno. La facoltà si lamentava, erano in molti a ritenerlo inutile, ma grazie a Weil ho potuto comprendere concetti che più tardi si sono rivelati essenziali per giungere al Teorema dell’indice. Nuove notazioni mettono insieme quello che succede in una certa area di ricerca, sono sempre segnali di novità in arrivo.
Il Teorema dell’indice ha trovato sorprendenti applicazioni in fisica, in particolare nella teoria delle stringhe. Più in generale le relazioni della matematica con quest’ultima sono sempre più feconde e intense. Una tendenza destinata a durare?
Non ho dubbi. La fisica esprime le leggi della natura in linguaggio matematico, non può dunque sorprendere che essa costituisca una inesauribile fonte di nuovi problemi e nuove ispirazioni. Ma la relazione va anche in senso inverso. Penso per esempio alla simmetria: ci è voluto il lavoro della matematica Emmy Noether perché i fisici capissero che essa è all’origine delle leggi di conservazione come quella dell’energia.
Recentemente la teoria delle stringhe è stata messa in discussione proprio dai fisici, penso a Lee Smolin, per l’assenza di previsioni verificabili. Non crede che in questo caso sia stata proprio la bellezza matematica a imporsi sulla necessità di evidenze sperimentali?
Non posso certo spiegare ai fisici il loro mestiere, d’altronde ricordo che molti anni fa il mio amico e premio Nobel Chen Ning Yang durante una conversazione mosse alla teoria delle stringhe le medesime obiezioni. Ma credo che quest’ultima sia qualcosa di più di un modello con cui «giocare», basti pensare al suo tremendo impatto sulla matematica anche in aree di ricerca estremamente avanzata. Durante uno dei miei seminari ci capitò di confrontare dei calcoli fatti da matematici con quelli dei fisici. Si trattava di un complesso problema di geometria e i risultati non concordavano. Ebbene, risultò che i matematici avevano ottenuto il risultato con un programma per computer rivelatosi sbagliato. I fisici, e i loro metodi euristici di calcolo, avevano invece fornito la risposta giusta!
Le applicazioni pratiche della matematica non sono mai state così diffuse. Una tendenza che cambierà la matematica?
Sicuramente ne deriverà un grande arricchimento. Non si tratta solo di ricordare che un teorema di Frobenius è alla base del motore di ricerca di Google, si tratta anche di capire che lì fuori, nei laboratori di biologia per esempio, emergono nuovi e interessanti problemi matematici. Penso per esempio allo sviluppo della statistica in risposta alle necessità di analisi del dna e della espressione dei geni, ma anche alle domande che ci vengono poste dalle neuroscienze. Penso a Larry Abbott, un fisico teorico che si è allontanato dalla sua disciplina proprio a causa della teoria delle stringhe! Aveva preso a frequentare un laboratorio dove si conducevano studi sul cervello degli animali e il risultato dei suoi sforzi per costruire un modello dell’interazione reciproca dei neuroni è stato un libro, Neuroscienza teorica, che ha aperto un nuovo campo di ricerca matematica.
Una delle cause della crisi economica è stata la diffusione di prodotti finanziari matematicamente sofisticatissimi e il ruolo dei matematici medesimi nell’elaborarli è stato cruciale. Non crede che anche per loro sarebbe necessario un dibattito simile a quello che i fisici hanno conosciuto dopo Hiroshima e Nagasaki?
Non credo che queste responsabilità vadano attribuite alla matematica ma più semplicemente all’avidità. Le nostre formule non sono un pericolo, semmai lo è l’assenza di controlli sulle banche. Ciò detto, credo che all’origine della difficoltà di molti miei colleghi a valutare l’impatto sociale del loro lavoro ci sia il fatto che, seppur fondamentale, la matematica occupa quasi sempre una posizione per così dire remota nella catena degli eventi. Norbert Wiener con la sua cibernetica ha introdotto la nozione di feedback, come avrebbe potuto prevedere che sarebbe stata utilizzata anche per il puntamento di missili?
Eppure le applicazioni alla finanza sono state molto dirette.
Un mio vecchio compagno di stanza a Princeton, John Nash, voleva fare previsioni economiche fondate su due ipotesi: infinita avidità e infinita razionalità. La prima mi sembra realistica, la seconda per nulla. Lo ribadisco, non credo che la matematica debba essere disprezzata se l’avidità ne fa un suo strumento, se può facilitare gli avidi nel raggiungimento dei loro fini. Tuttavia, è essenziale che gli scienziati capiscano il ruolo del loro lavoro nella società. Dobbiamo sviluppare regole che ci aiutino a fare in modo che la scienza porti vantaggio all’umanità e all’ambiente, non il contrario. E i matematici dovrebbero prendere parte a questa discussione, rompere il loro volontario isolamento, essere più curiosi di quello che succede in altre discipline e in generale all’esterno.
La sua attività di matematico è sempre stata accompagnata dall’insegnamento. A cosa si deve questa scelta?
In primo luogo perché mi piaceva, amavo tenere corsi anche su argomenti elementari. E poi perché questo mi permetteva di entrare in contatto con giovani brillanti e entusiasti e aiutarli a trovare la loro strada. Mi rincresce che la loro situazione sia oggi così difficile.
Lei ha ricoperto importanti incarichi istituzionali ed è un profondo conoscitore del sistema universitario americano. Come ha risposto alla crisi?
Inizialmente a essere colpite sono state le grandi università private, che avevano fatto investimenti finanziari ad alto rischio. Ma ora la loro situazione si è stabilizzata e ben più gravi problemi emergono per quelle pubbliche. Su di esse infatti si abbattono tagli provocati dall’insostenibile deficit dello stato e solo il sostegno economico di diverse fondazioni private ha finora evitato il disastro. Rischiamo di perdere un’intera generazione, anche di matematici, a causa dell’assenza di posti e molti giovani che avrebbero meritato di più saranno costretti ad abbandonare la ricerca o ad accontentarsi di impieghi non alla loro altezza. A loro posso solo dire tre cose: conservate una mente aperta, siate consapevoli delle vostre forze e debolezze, ma soprattutto continuate a lavorare duro. Nonostante tutto.
Quali passioni coltiva, oltre alla matematica?
Amo il tennis e la scultura, ma soprattutto il jazz anche se «vecchio stile». Le dirò di più, una volta ho preso il tè con Billie Holiday! Ma vorrei citare un episodio, perché parla di insegnamento. Dopo un concerto, con un amico cercammo di incontrare Charlie Parker dietro le scene. Non abbiamo potuto, una fila di decine di giovani attendeva la sua uscita con la tromba in mano. Una volta arrivato, Parker cominciò a chiamarli uno per uno. Si faceva suonare un pezzo e se non era convinto lo ripeteva correttamente. Quindi toccava nuovamente all’aspirante allievo. Se andava bene avanti il prossimo, altrimenti... da capo!