23 settembre 2010
ROMA —
Lo strano caso di La Passione. Che strana accoglienza ha avuto a Venezia il film di Carlo Mazzacurati. Ha strappato tre applausi a scena aperta, il daily della Mostra che riunisce i media italiani e stranieri l’ha messo al secondo posto tra i 24 film in gara. Eppure la critica si è divisa. Lo spunto è quello di un regista (Silvio Orlando) che ha smarrito l’improvvisazione. Trattasi di farsa d’autore con risvolti amari sulla Bell’Italia che fu. Fandango lo fa uscire il 24 in 250 copie. Mazzacurati (peraltro non nuovo alle commedie) ha tradito il suo pubblico? «Credo sia un dovere degli autori cercare strade nuove, il film è nato per questo, tirarsi fuori da una nobile nicchia», dice il protagonista Silvio Orlando. «Venezia è una specie di Gran Premio da cui esci frastornato, può essere frustrante vedere 4-5 film al giorno. Magari all’interno di un festival la commedia sta un po’ larga, si immagina che abbia le gambe solide per camminare da sé rispetto a film più delicati. Io una parola la spendo per il cileno Post Mortem di Pablo Larrain, quello è stato il vero scandalo». Il ministro Sandro Bondi vuol mettere becco in futuro sulla composizione della giuria ed è stato travolto dalle critiche. Sorride ironico: «E’ prematuro dare un giudizio, bisogna vedere cosa succederà in primavera, magari nomineranno Borghezio come ministro dei Beni Culturali».
Protagonisti Silvio Orlando (53 anni) con Kasia Smutniak (31): due protagonisti del film di Carlo Mazzacurati
Il film «è» il personaggio di Orlando e lui lo racconta così: «Sono un regista che dopo un avvio fortunato, non si sa se per merito o no, cade in un grande flop. E lo incontriamo in un momento di crisi creativa totale, deve farsi venire un’idea per una giovane starlette tv (Cristiana Capotondi) che vuol fare il salto nel cinema, la sua vita nelle mani di una ventenne piena di potere; contemporaneamente si ritrova con un problema nella sua casetta in Toscana: un vuoto d’acqua rischia di mandare in rovina l’unico patrimonio artistico del paese, con un ricatto gli evitano la denuncia se mette in scena la Sacra rappresentazione in cinque giorni». E il sottotesto amaro? «Non riusciamo più a cogliere la bellezza, e quindi a raccontarla».
La crisi del regista, Silvio l’ha vissuta per davvero, il suo agente voleva spingerlo a fargli fare il regista, la storia era pronta: «A un certo punto è come se non si dovesse crescere, puoi raccontare bene la fase tra i 30 e i 40 anni, poi entri in un cono d’ombra, raccontare a 50 anni i movimenti dell’anima è difficile, ciò che è fatto è fatto. Mi spingevano ad aprire questo capitolo da regista, non ho sofferto la frustrazione di non esserci riuscito, anzi ho tirato un sospiro di sollievo. La storia, partendo in modo vago dalla mia biografia, è quella di un orfano alle elementari che in classe diventa un piccolo divo coccolato. Fino a quando non arriva un altro orfano. E diventa un bambino cattivo, si usurpava la sua rendita. Viviamo tutti un po’ di rendita, spesso dando lezioni di coraggio».
Toni Servillo è rimasto in Campania perché c’è un quotidiano che lo nutre, dice che lontano sarebbe un attore diverso. Lei invece andò via da Napoli. «La mia fortuna fu di aver lavorato a Milano, a teatro per l’Elfo di Salvatores e in tv per la Fininvest. Milano mi ha dato la prima riconoscibilità. Ho rischiato l’osso del collo, mischiandomi nello stesso anno con Nanni Moretti e Teo Teocoli, alla fine il tormento, fra due persone così diverse, è lo stesso». Conobbe Berlusconi? «Sì, nel ’91, non era ancora entrato in politica, un dirigente Fininvest che mi ave-
va preso a cuore mi portò ad Arcore. Era la sera della sentenza Mondadori. Mi disse: Se lo sapevo che era qui scioglievo i
cani. Non era malevolo, è il suo modo spontaneo di metterti a tuo agio, la capacità di sdrammatizzare e di essere goliardico, quello che ha sedotto gli italiani. In questo mio appuntamento con la storia ho avuto la tentazione a posteriori di portarmi il registratore, non per ricattarlo. Però anch’io come la D’Addario ne sono uscito indenne, nel senso che non mi perquisirono».
Nanni Moretti invece, con cui ha fatto quattro film... «Ecco lui non ti mette comodo, anche nella recitazione. È una dialettica attore-regista. Lui poi la trasporta nella vita di tutti i giorni. Come attore avevo difficoltà sul lato sentimentale, faticavo a essere conflittuale e aggressivo. Invece Nanni Moretti in Palombella ros
sa mi ha fatto urlare dall’inizio alla fine, fu il mio film shock». Lei è un napoletano dalla gestualità misurata. «Andai via perché Napoli era portatrice di troppi segni, tutto era stato detto, un’eredità pesante. Mi sono ispirato a Peppino De Filippo che, a parte Pappagone, era di una raffinatezza e di una sottrazione straordinarie. E poi mi piaceva il cabaret surreale di Cochi e Renato».
Il fatto di non essere bello... «Un complesso che ho superato recitando. Ho avuto la fortuna che negli anni ’80 andavano di moda i brutti, io, Paolo Rossi, sono rientrato in questa ondata. Oggi farei più fatica. I belli, Riccardo Scamarcio e Kim Rossi Stuart, sono anche bravi. Poi c’è Elio Germano, un un ragazzo normale straordinariamente bravo». Lei ha un altro film, Missione di pace, opera prima di Francesco Lagi. «Io sono un militare che finalmente nell’ex Jugoslavia potrebbe avere uno scatto di carriera, quando tra capo e collo arriva mio figlio pacifista, che nella vita è mio nipote, e che forse è brutto quanto me. Si chiama Francesco Brandi, vive nel Nord Est, un nemico in famiglia. Però tifa Napoli. Ecco, quella è una farsa dall’inizio alla fine».