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 2010  settembre 23 Giovedì calendario

DAHL IL BASTARDO

Chiacchierando a un party con lo scrittore britannico Kingsley Amis, gli suggerì di buttar giù qualche libro per bambini, se davvero voleva fare i soldi. “Quei piccoli bastardi se li ingoieranno”. Dei suoi i bambini ne ingoiarono tantissimi, da “Charlie e la Fabbrica di Cioccolato” a “Matilde”, mentre gli adulti lo sopportavano a fatica. Anzi, la maggior parte di quelli che ebbero occasione di conoscerlo lo detestava (e a ragione). A vent’anni dalla morte di Roald Dahl – e nel mese che l’editoria britannica gli ha dedicato – esce una biografia autorizzata che ha scandagliato ogni centimetro della vita di uno dei più famosi autori di libri per l’infanzia (“Storyteller: The Life of Roald Dahl”, di Donald Sturrock, edito da HarperPress). Scoprendo che assomigliava moltissimo ai cattivi delle sue storie, sadici bugiardi naïf. Insomma più che il Grande Gigante Gentile del suo romanzo più amato, uno spilungone rugoso che soffia i sogni nelle camerette dei bambini, Dahl era un Grande Scrittore Bastardo.
Che dietro alle firme di libri per bambini si nascondano orchi (veri o presunti) non è una novità. Del creatore di Peter Pan, J.M. Barrie, si disse che era morbosamente attratto dai figli della sua amica Sylvia Llewelyn Davies, al punto da farsi affidare con l’inganno, alla sua morte, la loro tutela legale. Di Lewis Carrol si scrisse che era in realtà innamorato della sua Alice nel Paese delle Meraviglie. Di Alan Alexander Milne, inventore di “Winnie The Pooh” e dei suoi amichetti del Bosco dei Cento Acri, si sa che era un depresso che ignorava crudelmente suo figlio, il Christopher Robin che dà il nome al protagonista umano della storia (e che per questo fu preso in giro a vita), e che per frustrazione tentò inutilmente la strada della politica. Anche di Hans Christian Andersen si racconta che fosse depresso (a causa di abusi subiti ai tempi della scuola) e alla perenne ricerca di amori maschili e femminili mai ricambiati, al cui confronto la sua Sirenetta aveva vita facile. Per ora l’unica a salvarsi è J.K. Rowling, miliardaria creatrice della saga di Harry Potter, appassionata di filantropia in odore di santità. Di Roald Dahl oggi si scopre che era insopportabile, bugiardo e donnaiolo.
“Ci hanno mandato un bambinetto del cazzo” fu il primo commento di Dahl nel vedere il suo biografo Sturrock, che negli anni Ottanta aveva girato un documentario su di lui per la Bbc. Poi il giovane produttore venuto da Oxford entrò nelle sue grazie e passarono moltissimo tempo assieme. Alla fine lo scrittore lasciò alla figlia minore, Ofelia, il compito di controllarlo mentre scriveva la sua biografia ufficiale. Secondo Dahl, gallese con origini norvegesi, le biografie erano opere senza senso: la maggior parte della gente è troppo insulsa per perdere tempo a interessarsene e a raccontarla. Su di sé, però, ne scrisse due. La prima, del 1984, si chiamava “Boy”, come il nomignolo con cui da bambino firmava le lettere alla mamma (piene zeppe di errori ortografici), e raccontava episodi dell’infanzia. “Questa non è un’autobiografia – tenne a specificare sulla prima pagina – Mai mi sarebbe venuto in mente di scriverne una”. Poi evidentemente cambiò idea e due anni dopo uscì “Going Solo”, il capitolo sulla sua gioventù di soldato scapestrato.
Le sue ultime parole in vita furono “Oh, fanculo”, rivolte a un’infermiera che gli stava facendo un’iniezione. Appena un attimo prima, come un nonnino amorevole, aveva detto ai suoi familiari che tutti loro gli sarebbero mancati tantissimo. A dire una quantità imbarazzante di parolacce aveva iniziato da piccolissimo, quando gli ospiti dei suoi genitori si scandalizzavano perché lui e le sue sorelle scorrazzavano per casa sprecando improperi e fraseggi a sfondo sessuale. Il suo editore, Random House, non lo sopportava più. Alle sue minacce di mollarli la direzione rispose chiarendo che se non avesse iniziato “a comportarsi civilmente” con loro non c’era verso che gli pubblicassero ancora qualcosa. Nella pioggia di lettere di protesta con cui li aveva tartassati definiva “quel fottuto contratto” per quattro libri “come un vampiro succhiasangue” che aveva sentito alla gola sin dalla sua stesura. Nel 1983, sulle pagine del New York Times, descrisse il suo editore di lunga data, Alfred Knopf, come “un uomo terribilmente arrabbiato, con una miccia a pronta a esplodere da un lato e un candelotto di dinamite nell’altra”. Si dice che anche i librai lo detestassero, e la cosa era probabilmente ricambiata. In un racconto per adulti, Dahl descrisse il titolare di una libreria, gretto e viscido, come il più grande lestofante del paese. “Il libraio che imbrogliò l’Inghilterra” approfittava del dolore delle fresche vedove per guadagnare: alle poverette erano recapitate fatture fasulle per letteratura erotica imbarazzante, che di solito si affrettavano a pagare per evitare scandali.
Dahl era incredibilmente bugiardo e amava spararle grosse. Nella sua bocca una campagna di guerra noiosa era costellata di battaglie epocali e scontri con belve feroci, un coltellino da cucina diventava un cimelio di famiglia, un nonno macellaio un “commerciante danaroso”. In “Boy” descrisse indignato le punizioni corporali inflitte dal preside della scuola, Geoffrey Fisher, futuro arcivescovo di Canterbury, a un compagno colpevole di aver infranto qualche regola bigotta. Peccato che all’epoca dei fatti Fisher avesse già lasciato l’incarico e che il ragazzino punito fosse un diciottenne beccato a molestare un bambino. E mentre Dahl racconta che l’episodio lo colpì al punto da farlo seriamente dubitare dell’esistenza di Dio, in realtà lui e l’arcivescovo (accusato della peggiore ipocrisia) rimasero in buoni rapporti per tutta la vita. Gli amici raccontano che di lui non ci si poteva fidare: scrisse che aveva imparato “in tenera età che non esistono segreti a meno che tu non li tenga per te”, e infatti lui spifferava tutto. Marian Goodman, sua vecchia conoscenza, ha riferito a Sturrock che Dahl sputtanava regolarmente chiunque, distruggendo amicizie e persino matrimoni. La figlia Lucy racconta che suo padre non sapeva tenere la bocca chiusa e che “era pettegolo come una ragazza”. Proprio per questo faticano tutti a credere che durante la guerra fosse stato un agente segreto britannico a Washington e a New York, oltretutto senza essersi fatto scappare niente.
Lo scopo del fumoso British Security Coordination (Bsc, servizio parallelo per cui lavorava, affidato da Churchill al faccendiere milionario William Stephenson) era promuovere gli interessi inglesi in America e contrastare la propaganda nazista. Nei suoi anni da spia, Dahl si impegnò moltissimo nel frequentare le feste dell’alta società. E nel collezionare gonnelle, soprattutto se attempate, chic e ricchissime. Secondo la figlia del magnate dell’editoria Charles Marsh, Antoine Haskell, che lo trovava “bello da morire”, il ventisettenne pilota della Raf “era stato a letto con chiunque, sulla costa orientale e su quella occidentale, avesse più di 50mila dollari l’anno”. Quel suo fare dinoccolato, la “bellezza maschia e nordica”, la discendenza praticamente diretta dall’eroe scozzese William Wallace e l’abilità nel flirtare facevano impazzire le donne. Spesso a New York era ospite di Helen Rogers Reid, sessantenne moglie del proprietario del New York Herald Tribune, che nelle lettere alla madre descriveva come “una affascinante e minuta signora con i capelli grigi” e nelle chiacchierate con Charles Marsh come “Helen-Frustino”. Millicent Rogers, quarantenne erede di un impero petrolifero, lo riempiva di regali (infatuata di lui ma incurante del matrimonio, probabilmente mentre frequentava Dahl la signora andava a letto anche con Ian Fleming, il creatore di James Bond).
A Londra fece da guardaspalle a Ernest Hemingway, in partenza per il D-Day come corrispondente di guerra, e sedusse sua moglie, Martha Gellhorn. I due trascorsero il tempo al Gladstone Hotel bevendo champagne e mangiando caviale da una latta da due chili. Della sua storia con la regina newyorkese della cosmesi mondiale, Elizabeth Arden, raccontò agli amici che non era andata avanti per molto, ma che in cambio gli aveva fatto passare i brufoli. L’unica a fargli girare la testa fu Annabella Power, attrice francese sposata in terze nozze con Tyrone Power (che la tradiva con Judy Garland e forse anche con qualche ragazzo). Da lei, raccontò poi alla sua seconda moglie, imparò molto di quello che sapeva sul sesso. Nel 1949, alle lettrici di Ladies Home Journal (di cui aveva sedotto la co-direttrice, Beatrice Gould, che gli mandava missive bollenti) spiegò che a far funzionare una relazione amorosa erano per il 70 per cento l’attrazione sessuale e per il 30 per cento il rispetto. Per questo al matrimonio preferiva di gran lunga relazioni brevi e strettamente fisiche. Nel racconto “L’Ospite”, il personaggio dello Zio Oswald (scapolo impenitente con collezioni eccentriche che vanno dagli scorpioni alle donne maritate) ammette, in sprezzo all’individuo medio: “Non riesco neppure a credere che un uomo in possesso delle proprie facoltà possa sopportare una sola femmina un giorno dopo l’altro, anno dopo anno. Alcuni, ovviamente, non la sopportano. Ma a milioni fanno finta di sì. Per quanto mi riguarda non ho mai lasciato che una relazione intima durasse più di dodici ore, assolutamente mai. E’ il limite massimo, e già otto ore sono un po’ troppo per me”.
Alla fine però si sposò con Patricia Neal, attrice di Hollywood e vincitrice di un Oscar morta un mese fa. Prima di allora lei aveva vissuto una passione folle con Gary Cooper: la storia era finita fra gli schiaffoni (anche quelli della moglie di Cooper sul faccino di Patricia) ma lei non l’aveva mai dimenticato. La luna di miele fu un disastro: l’automobile che Dahl aveva spedito in Europa li lasciava a piedi di continuo e Patricia, completamente disinteressata a qualsiasi aspetto culturale del viaggio, passava il tempo a struggersi per l’ex amato. Il matrimonio con Dahl durò per trent’anni trascinandosi fra litigi, tradimenti (di lui) e quattro figli. Nel 1972 lo scrittore incontrò Felicity Crosland, “Liccy”, più giovane di vent’anni e con già tre figli. Dopo dieci anni di relazione clandestina divorziò da Patricia Neal e la sposò, dicendosi finalmente innamorato. Ma se era un marito fedifrago e un compagno inaffidabile, Dahl come padre forse era ancora peggio. Quando sua figlia Tessa gli sbatté in faccia le prove che la madre era cornuta, lui la cacciò: “Vattene da casa mia. Non ho tempo da perdere con puttanelle come te”. Tessa intanto era cresciuta con un sacco di problemi e insicurezze e, al bisogno, lui la imbottiva con solerzia di barbiturici. A leggere i racconti dei figli Roald Dahl era una cinica versione in carne e ossa del padre di “Matilde”, il signor Dalverme, che per lei nutriva “la stessa considerazione che si ha per una crosta, cioè per qualcosa che si è costretti a sopportare fino al momento in cui la si può grattar via, eliminandola con un colpetto delle dita”.
In più, una serie di sventure, già dall’infanzia, lo resero sempre più acido e arrabbiato con il mondo intero. Perse una sorellastra e poco dopo il padre, suo figlio Theo ebbe un incidente in carrozzina che rischiò di rovinargli seriamente la vita e la moglie Patricia finì in coma per tre settimane. Come risultato divenne un fissato per ogni possibile forma di medicina, “un medico frustrato”, come scrisse in “Going Solo”. In guerra quasi perse il naso (che gli fu riattaccato da un medico) e la Battaglia di Atene – una dozzina di aerei della Royal Air Force contro più di un centinaio di velivoli tedeschi, e non soltanto secondo i racconti di Dahl – lo lasciò parecchio ammaccato. Inventò un macchinario per aiutare suo figlio a riprendersi e una tecnica di riabilitazione serrata che rimise sua moglie sulla scena in meno di tre anni. A 21 anni si fece togliere tutti denti, prima che potessero creargli qualsiasi problema, e cercava di convincere chiunque a fare lo stesso. Dahl non sopportava i germi, la malattia, i vecchi, le rughe. Nei suoi racconti compaiono personaggi ipocondriaci o molto schizzinosi. In “La Magica Medicina” il protagonista, George, riesce alla fine a far scomparire nel nulla quella brontolona bavosa della nonna, e tutti vissero felici e contenti.
Di certo già da bambino prometteva malissimo in quanto a carattere. Alla mamma scriveva eccitato che in una partita di rugby ne avevano “fatti piangere quattro di loro”. Impacchettava la sorella più piccola in un lenzuolo e le sparava addosso a salve. A scuola era un disastro: sulle sue pagelle, pubblicate fra i contenuti speciali di un libro di favole, le maestre lo definiscono ignorante come una capra. Fra gli intellettuali non godeva di grande stima, un po’ perché non era andato all’Università e un po’ perché li insultava spesso e volentieri. A inizio carriera sembrava che sarebbe diventato il nuovo Scott Fitzgerald. Maxwell Perkins (editore, oltre che di Fitzgerald stesso, di Hemingway e Wolfe) lesse i suoi racconti sulle pagine del New Yorker e decise di pubblicare il suo primo romanzo, ma all’improvviso morì e il manoscritto rimase sulla sua scrivania. “Io ha scrivuto un libro – si legge sull’etichetta di uno dei sogni inscatolati dal GGG, che ha imparato a scrivere tutto da solo e lo sa fare soltanto in stampatello – che è così appassionante che nessuno può smettere di leggere. Quando uno ha letto la prima riga è così rapito che deve continuare fino all’ultima pagina”. In quel sogno la gente non riesce a staccare il naso dalle pagine, le auto si scontrano e i dentisti strappano i denti senza guardare, ma a nessuno importa perché tutti sono presi dalla lettura. Poi però al risveglio, quando il bambino “è ancora tutto eccitato perché è il più grande scrittoio di tutti i tempi” (su tutte le copertine dei suoi libri Dahl è definito “il primo narratore al mondo”), arriva la mamma-critico letterario e rovina tutto: caro bambino mio, tu scrivi come un analfabeta. Dahl stesso era convinto di aver acquisito il dono della scrittura tutto d’un tratto, quando il suo aereo fu colpito in battaglia (in realtà probabilmente fu costretto a un atterraggio di emergenza per mancanza di carburante).
Adorava terribilmente provocare, al tavolo da pranzo come in pubblico, far scoppiare risse fra i presenti, vomitare il suo risentimento su chi aveva attorno. Fece arrabbiare i politicamente corretti quando nella Fabbrica di Cioccolato mise a lavorare gli Umpa Lumpa, pigmei africani in arrivo dal punto più nero della giungla. Ma soprattutto si fece bollare come antisemita quando, parlando della guerra del Libano del 1982, si chiese se Israele dovesse “essere messo in ginocchio come la Germania (nazista, ndr) prima di imparare come si sta al mondo”. Giusto per mettere a posto le cose dichiarò poi in un’intervista che “ci deve essere qualcosa negli ebrei che provoca animosità nei loro confronti… Perfino un rottame come Hitler non se l’era presa certo con loro senza motivo”. Al biografo stesso talvolta viene in mente che forse Dahl non era nemmeno un mostro assoluto, ma soltanto un creativo con un carattere orribile. Faceva moltissima beneficenza, soprattutto a favore dei bambini ammalati. Reinsegnò alla moglie a camminare, a parlare, a leggere. A un certo punto annunciò che lei avrebbe pronunciato un discorso a una cena di beneficenza, lei lavorò come una matta per cercare di impararlo a memoria. “In quel momento – scrisse Patricia nella sua autobiografia – mi sono resa conto che Roald il Negriero, Roald il Bastardo, inflessibile nelle sue punizioni, Roald il Marcio, come più di una volta l’avevo chiamato, mi aveva ributtata in mare aperto”. Una notte scrisse i nomi delle figlie sul prato di casa con il diserbante, e al loro risveglio raccontò che era opera delle fate. Durante il loro primo appuntamento, raccontò la procace moglie Patrice, lui sorseggiò il vino e stette a guardarla a lungo, attraverso la luce della candela, prima di aprire bocca. “Preferirei essere morto, piuttosto che grasso”, le disse.