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 2010  settembre 23 Giovedì calendario

OCCIDENT EXPRESS

Dieci anni fa, nella valle di Aynak, in Afghanistan, i terroristi di al Qaida si addestravano in un campo ricavato in una miniera abbandonata dai sovietici. Nel 2008, nella stessa conca arida e desolata, i dirigenti del colosso metallurgico cinese Mcc passeggiavano tra le rovine di una guerra endemica, interessati a depositi di rame sepolti sotto la polvere. Avevano stimato di stare camminando sopra risorse minerarie per circa 88 miliardi di dollari. Si erano accaparrati la licenza a novembre di quell’anno, tre miliardi di dollari per il diritto di estrazione per i prossimi trent’anni, il più grande investimento estero privato della storia afghana fino a quel momento.
Il ministro delle Miniere, Ibrahim Adel, aveva snocciolato le condizioni: “I cinesi devono costruire moschee, scuole, ospedali, negozi e piccoli baazar”. Si era dimenticato di includere un progetto su cui stanno ancora negoziando: una ferrovia.
Soltanto la Mcc sta preparando due tratte che allaccino la zona di Kabul al Pakistan e, attraverso il confine settentrionale, al Tagikistan. Un progetto complessivo di quasi mille chilometri, che concorre con l’iniziativa dell’Asian Development Bank, che punta a raccogliere 4 miliardi di dollari per la costruzione di una ferrovia che da Herat costeggi il confine risalendo fino al Tagikistan. Dalla repubblica ex sovietica le linee dovrebbero entrare direttamente in Cina, integrandosi con la rete nazionale e, in un futuro non troppo lontano, con l’espansione su rotaia a ovest con cui Pechino intende collegarsi all’Europa – una “nuova Via della Seta”, di cui al momento esiste un tratto, relativamente piccolo, tra Wuhan e Canton, la più grande città sulla costa meridionale della Cina.
Anche l’Iran vuole sfruttare le risorse della vicina provincia di Herat, ma le mire di Teheran hanno un peso molto marginale rispetto all’impronta cinese nella regione. L’unico altro progetto di paternità diversa è quello del Pakistan, che attraverso il passo Khunjerab mira a collegarsi alla Cina con una linea che scenda giù fino alle sponde del mar Arabico.
Al momento i collegamenti tra l’Afghanistan e i paesi vicini sono irrisori: giusto due brevi ferrovie, che sommate non superano i 25 chilometri, dirette in Uzbekistan e Turkmenistan. Ci sarebbe anche una linea verso il Pakistan, che però, attraversando la zona in cui si concentra il conflitto con i talebani, è bloccata. I progetti cinesi aprirebbero la prima vera tratta commerciale del paese, la cui economia, dopo trent’anni di conflitti continui, è quasi inesistente.
Per Pechino sarebbe la prima alternativa credibile al Kazakistan, con cui la Cina ha l’unico legame operativo in Asia centrale, tramite una ferrovia che parte dalla regione dello Xinjiang, la più vicina al confine kazaco. Una via commerciale su cui, soltanto nel 2008, i due paesi hanno trattato l’equivalente di 17,5 miliardi di dollari in rame. La necessità impellente di risorse – problema cronico per la Repubblica popolare cinese – e un po’ di realismo stanno portando Pechino a costruire una seconda linea kazaca, organizzata in dodici tratte. Nove saranno equipaggiate da rotaie con standard russi, particolare che dichiara l’intenzione di proseguire ancora più a nord, non appena ci saranno le condizioni adatte. Non c’è fretta, si procede un passo alla volta, per instaurare senza traumi eccessivi quello che sta per imporsi come un dato di fatto: se prima le merci andavano in direzione di Mosca, ora vanno verso est, in direzione di Pechino.
Si inizia a valutare anche l’opportunità di collaborare con il Kirghizistan, da cui si potrebbe rilanciare verso l’Uzbekistan. Fino al 6 aprile scorso il piccolo paese dell’Asia centrale era noto quasi esclusivamente per la presenza di una base militare russa e di una americana, punto d’appoggio strategico per la guerra in Afghanistan. Poi giorni di proteste violente hanno costretto il presidente Bakiyev alla fuga, consegnando il paese alle violenze etniche – che alcuni analisti vorrebbero fomentate con sapienza dalla Russia. Il nuovo presidente, Rosa Otunbayeva, ha mantenuto la prima promessa, un referendum su una nuova Costituzione, il 27 giugno scorso. In attesa di concretizzare la seconda – elezioni a suffragio universale entro l’anno – ha lasciato che settantamila uzbechi scappassero dal sud del paese, in fuga da violenze etniche tanto feroci da far parlare Edward Luck, consigliere speciale dell’Onu, di “pulizia etnica”. La Cina, seppure confinante con il Kirghizistan, si è mantenuta neutrale, in attesa di sfruttare l’instabilità dei vicini per i propri fini commerciali: un paese allo stremo, in cui le elezioni sono praticamente sostituite da colpi di stato troppo frequenti, darebbe il suo assenso alla creazione di una tratta commerciale sul proprio suolo senza porre tante condizioni, ingolosito dalla possibilità di un’eventuale rendita di posizione.
Restando in silenzio di fronte ai tumulti kirghizi, la Cina si attiene a una strategia di politica estera ben collaudata. Pechino ha seguito la linea tracciata da Zhou Enlai, fondatore e leader della Repubblica popolare per ventisette anni, fino alla sua morte. Nel 1953, incassato il cessate il fuoco con la Corea del nord, aveva sancito i cinque principi della coesistenza pacifica: rispetto reciproco dell’integrità territoriale e della sovranità nazionale, nessuna interferenza negli affari interni, uguaglianza nei diritti, coesistenza pacifica e nessuna aggressione reciproca. Il rifiuto dell’ingerenza negli affari nazionali “è in realtà articolato in maniera sofisticatissima”, nota il professor Giovanni Andornino, docente all’Università di Torino e all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. “I cinque principi volevano essere un attestato di originalità in politica estera rispetto alle briglie che la Guerra fredda imponeva a tutti i paesi – dice al Foglio Andornino –, attraverso i quali la Cina voleva definire la sua indisponibilità a lasciarsi definitivamente catalogare”. Pechino ci tiene a non sembrare un gregario, a presentarsi come un alleato differente. Nei primi anni Settanta la Cina si era spinta persino in Africa, a Dar es Salaam, per seguire questa linea rompendo la dialettica esclusiva tra Russia e Stati Uniti. L’aveva fatto costruendo – guarda caso – una ferrovia, la Tazara. Che, con i suoi quasi 1.900 chilometri, aveva richiesto un investimento di 500 milioni di dollari, cifra non proprio irrisoria per le possibilità della Repubblica popolare cinese.
Uno slancio estero in grande stile era necessario – e, con alcune differenze, ha ancora la sua utilità – anche come strumento retorico, nota Andornino: “E’ un modo con cui la Cina si presenta al mondo e ai paesi in via di sviluppo, come se dicesse ‘avete visto tante forme di colonialismo, noi siamo di un’altra pasta e siamo sempre stati così’”.
Nei primi anni Settanta i canoni erano quelli della cosiddetta “solidarietà sud-sud”, una sorta di mutuo soccorso tra nazioni escluse dal giro di quelle che contano. Ma quella che prima era una necessità ora sta diventando una gabbia in cui la Cina si sente costretta: visto che le altre potenze si sono già accaparrate i mercati più interessanti, a noi non resta che raccogliere le zone di cui gli altri non si curano. E così gli impresari di Pechino rastrellano affari in tutto il mondo, presentandosi in zone economicamente depresse, come avvoltoi che si aggirano sulle carcasse di stati in difficoltà. Propongono una cosiddetta partnership “win-win”, un investimento in cui non ci sono perdenti: voi ci concedete di sfruttare le vostre risorse, su cui avrete una rendita, e noi costruiamo ponti, strade, ferrovie – infrastrutture che spesso, va notato, la Cina è poi molto restia a lasciare in gestione al paese partner. E per di più ci disinteresseremo della vostra politica interna, al contrario delle nazioni occidentali, che premono perché si adottino basi minimamente credibili di democrazia e di correttezza commerciale. Queste promesse rendono la Cina un partner preferibile, perché efficiente sul piano degli affari e mai offensivo su quello politico. E’ così che Pechino, è riuscita a instaurare relazioni forti e durature. Un risultato raggiunto esclusivamente per via commerciale, senza doversi mai scomodare a minacciare l’utilizzo della propria forza militare.
In Asia centrale ci sono anche altri motivi che rendono le aziende cinesi dei soci interessanti. Innanzitutto la scarsa concorrenza dell’India, che, ostacolata da fattori geografici e distratta da altre minacce – le relazioni ostili con il Pakistan e l’instabilità delle zone di confine –, non ha la capacità di accreditarsi come avversario. E la Cina è anche una potenza con cui è più naturale trattare, per via di legami storici. L’impero cinese, nella sua massima espansione, aveva protettorati che arrivavano fino a Herat, in Afghanistan.
I paesi della regione, avvezzi a essere trattati come aree marginali, si sono scoperti attraenti grazie alle loro risorse minerarie. Lo sfruttamento dei propri giacimenti sembra la carta tanto attesa per potersi emancipare dall’influenza di Mosca, che, in una pluralità di attori interessati ad accordi commerciali, può essere quasi respinta al livello di un partner come un altro. Di fatto, rompendo l’uso consolidato di far circolare le merci da sud a nord, in direzione della Russia, con una direttrice che va da ovest a est, la Cina sta portando uno squilibrio regionale i cui frutti geopolitici sono ancora tutti da cogliere.
Di sicuro anche la stabilità interna della Cina avrebbe tutto da guadagnare da un’espansione delle nuove “vie della seta”. Le province più periferiche, tradizionalmente le più depresse e problematiche, sono le prime a essere interessate dai commerci con i paesi vicini. E una rete ferroviaria verso l’Asia centrale potrebbe contribuire a riequilibrare la situazione economica sul territorio cinese. Senza contare i benefici che l’apertura al commercio potrebbe dare in province come lo Xinjiang, tormentata dagli scontri etnici tra han e uiguri, dalle infiltrazioni del terrorismo di matrice islamica e dalle tentazioni di indipendenza dalla Repubblica popolare cinese. Scardinare l’isolamento aiuterebbe i dirigenti di Pechino a normalizzare le derive pericolose.
Per raccogliere questi vantaggi serve uno slancio verso ovest che metta in conto prospettive di lungo termine. Ma lo sforzo per allargare i confini dell’Asia centrale sta trovando una serie di ostacoli, non soltanto di natura economica. Un destino a cui sono soggette “anche le proposte più modeste di costruire un sistema ferroviario”, ha notato Richard Weitz, del think tank americano Hudson Institute. C’è da convincere lo stesso Partito comunista cinese, che dovrebbe mobilitare alcuni fondi che invece non gli dispiacerebbe usare per sviluppare le infrastrutture all’interno del proprio paese. Già ha destinato 295 miliardi di dollari per costruire una rete di treni ad alta velocità per collegare i propri centri più importanti. Un progetto da sedicimila chilometri, che la Banca mondiale ha definito “il più grande programma ferroviario civile che una nazione abbia mai intrapreso in una sola volta”. Senza contare la difficoltà di vendere politicamente lo sforzo ulteriore verso ovest, che impiega le proprie risorse all’esterno, dando vantaggi a paesi stranieri che, prima o poi, vorranno gestire da sé le infrastrutture che la Cina gli ha fornito.
C’è da considerare anche l’opposizione della Russia, che, secondo Fernando Orlandi, del Centro studi sulla storia dell’Europa orientale, “nasconde sotto dichiarazioni di facciata delle tensioni molto forti”. “I russi sostanzialmente non hanno investito negli ultimi venti anni” nel mercato delle risorse dell’Asia centrale, specialmente in quello degli idrocarburi, dice Orlandi al Foglio. “Sono stati molto miopi, perché hanno usato la furbizia guardando soltanto al breve periodo – nota Orlandi – e ora si ritrovano con gasdotti che perdono oltre un terzo di quello che trasportano, per fare un esempio. Mentre la Cina si è presentata in modo massiccio, con i contanti in mano”.
Ma a ostacolare la rincorsa cinese alle risorse dell’Asia centrale, osserva Weitz, sono soprattutto “le barriere non fisiche al commercio, che forse sono più grosse della mancanza delle ferrovie e delle strade necessarie”: dazi pesanti, burocrazie farraginose – quando ci sono –, zone destabilizzate in cui le milizie armate contano molto più dei governi centrali. Sono gli unici aspetti a cui Pechino non può rimediare da sola, semplicemente perché, ironizza l’Asia Times, non si possono comprare.
Per questo in Cina, quando si parla di commercio internazionale, si intende quasi esclusivamente il trasporto via mare. E’ un mercato che ci riguarda da vicino, visto che il colosso governativo cinese dei trasporti su cargo, la Cosco, ha affittato buona parte del porto commerciale di Atene. Più di tre miliardi di euro per ottenere le licenze del molo per i prossimi trentacinque anni, a cui si sommano 564 milioni per migliorare lo scalo e costruire un terzo approdo.
“Ma i cinesi al momento stanno usando poche risorse – fa notare Orlandi – e a breve ne dovranno usare molte di più”. Nonostante gli ostacoli, Pechino sarà costretta a rafforzare i suoi rapporti con gli stati vicini, che possono vendere delle risorse il cui mercato continua a crescere. Ma non è soltanto la Cina a dovere rispondere ai problemi generati dalla sua espansione verso l’Asia centrale. L’esistenza di un’alternativa tra gli acquirenti dà alle repubbliche ex sovietiche un maggiore margine di manovra, che ci preoccupa perché indebolisce la posizione di Russia, Stati Uniti ed Europa. “Noi non ci poniamo il problema perché c’è un attore in più sul mercato, ce lo poniamo perché non siamo in grado di stabilire cosa i cinesi faranno con queste risorse – fa notare Andornino, aggiungendo che “è arrivata l’ora di raffinare il nostro ‘soft power’”, se non vogliamo essere condannati a un destino da spettatori.
Perché, ora che i paesi dell’Asia centrale iniziano ad affacciarsi sul mercato, è arrivato per noi il momento di decidere se vogliamo prendere parte alla contesa o rassegnarci a esserne esclusi. Dobbiamo rispondere a una domanda semplice e impietosa: ora che possono scegliere a chi vendere le loro risorse, perché dovrebbero darle proprio a noi, piuttosto che ai cinesi?