Lietta Tornabuoni, La Stampa 23/9/2010, pagina 36, 23 settembre 2010
La fatica delle donne non è un giro di parole - A un corso istituito in provincia di Latina si sono presentati soltanto una ventina di italiane e italiani, nessuno straniero: da questa notizia si dovrebbe desumere che i nostri connazionali si rassegnano adesso a fare quel genere di lavori che non volevano fare più e che erano diventati caratteristici degli immigrati asiatici, europei, africani
La fatica delle donne non è un giro di parole - A un corso istituito in provincia di Latina si sono presentati soltanto una ventina di italiane e italiani, nessuno straniero: da questa notizia si dovrebbe desumere che i nostri connazionali si rassegnano adesso a fare quel genere di lavori che non volevano fare più e che erano diventati caratteristici degli immigrati asiatici, europei, africani. Sarà. Vorrà dire nel caso che la crisi economica è ancora lontana dall’essere superata, cosa di cui moltissimi sono certi. Dalla notizia si viene a conoscere pure l’ennesima mutazione di un termine, di una definizione tra le più trasformiste: la penultima trovata è «assistente domestica». All’inizio stava serva, servo, servitore, servente e (più affettuoso o piccante, riservato magari alle bambine o ragazze molto giovani) servetta. Poi si è passati a «cameriera» o cameriere. Poi a domestica, domestico. Poi alla cauta perifrasi «la persona che lavora in casa mia». Più tardi ancora a «collaboratrice domestica», abbreviato in «colf». Adesso la collaborazione si trasforma in assistenza e il prestatore d’opera diventa assistente: come accade in quegli uffici dove la definizione «segretaria» o segretario sembra troppo diminutiva, quasi mortificante, mentre il termine «assistente» comporta qualcosa di soccorrevole e indispensabile, prevede una mancanza di autosufficienza nel datore di lavoro. Si capisce che il linguaggio evolve attraverso il tempo, però la sostanza del lavoro non cambia. Naturalmente, si ricordano i tempi in cui «la donna» (pure questa era una definizione corrente) era nutrita diversamente dalla famiglia (loro bistecca, lei uovo), dormiva in sgabuzzini angusti senza finestra, non di rado era molestata dagli uomini di casa e veniva bersagliata da osservazioni maligne se per uscire un pomeriggio alla settimana metteva come la signora le calze trasparenti. Le condizioni sono oggi ovviamente diverse, nessuno più considera umiliante quel compito pagato quanto l’insegnamento, ma il lavoro è sempre quello: pulire, fare i letti e il bucato, stirare, cucinare, eventualmente comprare, badare ai bambini e ai vecchi, mettere in tavola eccetera. Nessun nominalismo, nessun prudente o ipocrita giro di frase, nessun trucco verbale nobilitante, nessun assistente riuscirà mai a eliminare quella che soprattutto resta la fatica delle donne.