Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  settembre 21 Martedì calendario

FAI PACE CON IL MULLAH OMAR

La Casa Bianca ordina, il Pentagono obbedisce, la catena di comando della guerra afghana pur con qualche sobbalzo continua a sferragliare. Ma la leadership civile dell’America e quella militare sono in completo disaccordo su che cosa fare. Vincere a costo di aspettare un tempo indefinito e bruciare altre montagne di risorse, in tempi grami come questi? O arrangiare un compromesso di pace funzionante e ritirarsi in stile Iraq – ovvero: da adesso in poi sono fatti vostri – a partire dalla data già annunciata di luglio 2011?
Il generale David Petraeus vorrebbe più tempo a disposizione, come il predecessore Stanley McChrystal – finito dietro a una cattedra a Yale perché i suoi commenti pieni di sprezzo sui pavidi dell’Amministrazione “ritirista” sono arrivati alla stampa – e lo ha ribadito anche sabato su Repubblica: “La guerra sarà lunga”. Il suo subordinato e generale dei marine James Conway sostiene che avere annunciato la data di inizio ritiro ha regalato al nemico un incalcolabile vantaggio morale e strategico. “Li sentiamo nelle intercettazioni, si incoraggiano l’uno con l’altro, ‘basta durare ancora poco, e tra quel poco se ne andranno”. La verità abbastanza semplice – dice il generale dei marine – è che i prossimi dieci mesi non basteranno: in Afghanistan “possiamo perdere velocemente oppure vincere lentamente”.
La Casa Bianca non intende ascoltare i generali. Il portavoce del presidente, Bill Burton, ha detto che la data di inizio ritiro è “not negotiable”. Anche questo è abbastanza chiaro ai militari. La data è fissata. Non si negozia. Non si discute.
L’idea di fare la pace con il Mullah Omar frulla sempre più nell’aria e nelle teste e affascina. Questo mese il mensile inglese Prospect ha una copertina sui talebani “not as bad as you think”, che non sono così cattivi come pensate. Prospect fa il punto della situazione così, con la voluttà del ogni-speranza-è-inutile: “Il paradosso dell’Afghanistan – che trasse in confusione anche i sovietici negli anni Ottanta – è che più truppe e risorse noi gettiamo nella mischia, più cresce la determinazione dei guerriglieri a resistere. Gli afghani hanno sofferto un milione di morti nella guerra contro l’Unione sovietica. A confronto di quelle perdite, questa guerriglia è a malapena cominciata. E mentre le battaglie si stanno intensificando, i soli segni di attrito si manifestano in occidente, dove il sostegno pubblico per la guerra crolla e i leader su entrambe le sponde dell’Atlantico hanno già pubblicamente discusso le date del ritiro”.
Secondo il solitamente ben informato AsiaTimes, non è più soltanto un’idea. Gli Stati Uniti sono impegnati per la prima volta in negoziati seri con i talebani. Erano almeno tre anni che i colloqui con la guerriglia andavano avanti a intermittenza, senza però la partecipazione di Washington. Anzi. I tavoli aperti erano così numerosi che un diplomatico ha definito la pace afghana “un’industria”. In tempi e posti diversi – La Mecca, Dubai, l’Oman, persino su un atollo delle Maldive – rappresentanti dei talebani (o “vicino ai” talebani) hanno incontrato più o meno in segreto parlamentari di Kabul, funzionari delle Nazioni Unite, emissari del presidente afghano Hamid Karzai e di tutti i principali partiti ed etnie afghani. A questi incontri si sono aggiunte le iniziative private o semiprivate organizzate da inglesi, norvegesi e sauditi. Il sospetto è addirittura che tutto questo gran parlare di pace abbia sottratto l’energia e l’unità di consensi che sarebbero servite a raggiungere un compromesso autentico, che abbia diluito tutto quanto.
Ora invece si farebbe sul serio: l’esercito pachistano e i sauditi stanno facendo da intermediari per facilitare le cose e passare i messaggi. I pachistani sono in contatto – come sbagliarsi? – con la leadership talebana, incluso Sirajuddin Haqqani, comandante del clan Haqqani, la fazione più brutale e più legata agli arabi di al Qaida dentro la guerriglia afghana. Dai pachistani i messaggi passano ai sauditi, che a loro volta sono in contatto con gli americani.
Il primo segno della pace in arrivo tra Washington e i talebani, se arriverà, sarà questo: una delegazione del governo pachistano visiterà il carcere di massima sicurezza di Guantanamo Bay, per ascoltare i detenuti pachistani e verificare le loro condizioni. Il loro rilascio sarà il gesto di buona volontà chiesto dai servizi segreti militari di Islamabad – che sono, vale ancora la pena ripeterlo, fin dall’inizio complici e sfruttatori dei gruppi estremisti in Pakistan e dei talebani in Afghanistan – per aprire la strada alle fasi successive. Gli americani chiedono, e questa è un’altra questione toccata nello scambio di messaggi, di mantenere una presenza militare nel nord dell’Afghanistan e sono d’accordo con il lasciare il controllo del sud ai talebani (il sud è prevalentemente di etnia pashtun, che è l’etnia che alimenta le file dei talebani: non tutti i pashtun sono talebani, ma il contrario è al 99 per cento sempre vero). I talebani su questo punto non vogliono per ora cedere e chiedono il ritiro completo dal paese.
La questione chiave, quella su cui si gioca tutto, è il rapporto con al Qaida. Washington si dichiara disinteressata a trattare con al Qaida e vuole separare i talebani da al Qaida. Ed ecco tornare l’eco delle parole del direttore della Cia, Leon Panetta, che di recente ha detto – per lo sbigottimento degli analisti – che “al Qaida in Afghanistan non ha più di 50-100 uomini”. E’ cominciata la campagna dell’Amministrazione per dividere i due gruppi soprattutto nella coscienza pubblica, sul campo è un’altra cosa, e minimizzare l’influenza degli arabi.
Panetta sa che in questi anni è successo esattamente l’opposto: talebani e arabi hanno mescolato uomini e obbiettivi. E sa anche che il numero di uomini di al Qaida in Afghanistan, se anche fosse così basso (e non lo è) nel settembre 2001, al tempo degli attacchi contro New York e Washington, non era superiore a 200. Ma ora funziona così. La Casa Bianca, che fino all’estate distingueva tra i talebani riconciliabili e i talebani con cui la riconciliazione è impossibile, ora ha abbandonato questa distinzione per una più pragmatica: “talebani” contro “talebani legati ad al Qaida”.
I militari pachistani hanno messo in piedi una rete di contatti per discutere le questioni con i comandanti talebani. Le note sono quindi condivise in simultanea con Riad e con gli americani. Talebani sarebbero andati anche in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti, durante il mese sacro dei musulmani, il ramadan, appena finito, per condividere con i diplomatici arabi l’iftar, le lunghe cene che rompono il digiuno diurno, occasione assieme densa e informale per i colloqui. Per trattare specificamente il punto su al Qaida, anche il generale Ashfaq Kayani – il cui mandato è stato straordinariamente allungato quest’anno, e ora a posteriori si capisce perché: non si può cambiare intermediario a metà corsa – è appena stato in Arabia Saudita, cinque giorni a palazzo reale per parlare con il sovrano, Abdullah, e con il suo direttore dell’intelligence, il principe Muqrin bin Abdul Aziz. A sua volta il principe è atteso questa settimana in Pakistan, dove una serie di appuntamenti post ramadan in luoghi sicuri è stata fissata per lui e per misteriosi “interlorcutori di rango”.
Il 25 settembre arriverà in Pakistan un altro protagonista di questi negoziati segreti: l’ex ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Islamabad, Ali Mohammed al Shamsi, che ha goduto dell’amicizia personale della leadership talebana – gli Emirati furono uno dei tre unici paesi che riconobbero il regime del Mullah Omar negli anni Novanta – e che ora è l’inviato speciale di Dubai per il Pakistan e l’Afghanistan, il loro Richard Holbrooke. Dopo il Pakistan, al Shamsi andrà anche a Kabul.
Dall’altro lato, dalla parte dei talebani, il negoziatore di livello più alto è Syed Tayyab Agha, emissario diretto del Mullah Omar. L’anno scorso era già andato a Riad, ma poi si sarebbe ritirato dopo aver scoperto che i sauditi stavano trattando per conto diretto degli americani. Il vice del Mullah Omar, il Mullah Baradar, era un forte sostenitore dei negoziati di pace, ma proprio per questo è stato arrestato – tolto di mezzo – lo scorso febbraio dall’intelligence del Pakistan. Secondo il New York Times, i pachistani lo avrebbero arrestato perché pensavano che i suoi discorsi di compromesso fossero troppo prematuri, e anche perché escludevano i servizi segreti pachistani come canale dell’accordo.
Il Mullah Omar si tiene fuori dal giro. Ma il suo discorso in occasione della fine del ramadan, lo scorso 8 settembre, quest’anno è suonato diverso dagli altri. Oltre a sostenere che la vittoria è “imminente”, il leader talebano ha detto: “Quando torneremo al potere, inaugureremo una cornice di politica estera per i nostri rapporti con gli altri stati, siano essi islamici o non islamici. Il nostro principio guida sarà : non vogliamo fare male ad altri e permettere che altri facciano male a noi”. Alle orecchie dei diplomatici occidentali, suona chiarissimo il rintocco di Omar sulla questione principale, la presenza di al Qaida in Afghanistan. Mullah Omar sta dicendo: non permetteremo più che vi sia fatto del male, usando come base di partenza questo paese.
Secondo AsiaTimes, i negoziati in Arabia avrebbero considerato anche l’ipotesi di riconsegnare la cittadinanza saudita a Osama bin Laden e ad altri terroristi sauditi, per arrangiare loro una qualche forma di esilio.
Le voci sempre frammentate ma anche sempre più forti sui negoziati e pure il messaggio del Mullah Omar sono senz’altro interessanti, ma non sono l’anticamera della pace, perché i talebani kandahari – appartenenti ai clan di Kandahar – guidati da Omar sono soltanto uno dei gruppi in guerra in Afghanistan. Identificati come talebani della shura di Quetta, perché il loro consiglio direttivo ora è a Quetta, una città sicura poco oltre il confine con il Pakistan, i kandahari controllano soltanto la parte sud del paese. La parte est è in mano ad altre fazioni, migliaia di guerriglieri non pashtun fedeli ad al Qaida e ai gruppi pachistani. Fare la pace con Omar non garantisce neppure per un minuto la fine delle ostilità anche con loro.
Lunedi scorso Robert Blackwill, ex vice di Condoleezza Rice come consigliere per la Sicurezza nazionale e inviato di George W. Bush per l’Iraq, vale a dire un uomo d’apparato influente ma non di questa Amministrazione, ha presentato al prestigioso International Institute for Strategic Studies di Londra un piano per la partizione dell’Afghanistan. Blackwill propone di cedere il controllo del sud dell’Afghanistan ai talebani e di ritirare i soldati americani a nord. Che è esattamente il piano discusso in segreto dall’Amministrazione per arrivare a un compromesso prima militare e poi politico con i talebani. Forse quello di Blackwill davanti a una platea competente è stato un ballon d’essai per saggiare le reazioni. “Quante persone credono veramente che Kandahar (capitale dei talebani nel sud) abbia un ruolo centrale per la civiltà occidentale? Non siamo andati in Afghanistan per controllare Kandahar”, ha detto. Ogni tentativo di appeasement comincia così, con questa domanda: “Ne vale la pena?”. A dicembre, quando l’Amministrazione Obama ascolterà Petraeus fare il suo primo rapporto pubblico a Washington, le parole di Blackwill – “Controllare Kandahar?” – sono destinate a diventare il nuovo “Morire per Danzica?”.